Il carattere di grande precoce, che lo definisce, opera quel fraintendimento a cui è andato incontro Max Stirner nei confronti dei suoi contemporanei che perdura anche oggi, alla presenza di un’agiografia piuttosto corposa che ha fatto riprendere l’interesse per questo pensatore tedesco, trovatosi suo malgrado al centro di una nutrita serie di interpretazioni ognuna divergente dall’altra. Come in un test di Rorschach ognuno vi proietta quello che è il suo pensiero, ipotesi lievemente comica se si comprende il fatto che quello che è più importante nel suo discorrere è proprio ciò che non è detto, che è celato. E quindi è tutto un florilegio di soccorritori che vanno da un tizio che poi ci fonda su un partito fascista, un altro che è ideologo di qualche bomba intelligente, un terzo che ne fa professione di veggenza profetica, non mancando naturalmente l’uso di bignamino dell’anarchismo più spicciolo e casalingo. Per dissipare la nebbia ideologica che ha impedito di capire la portata più autentica del suo “Unico”, bisogna seguire quel filo di Arianna steso lungo il tortuoso percorso della sua opera, oltre le citazioni e i confronti con le filosofie altrui, oltre le invettive contro ogni forma di sacro, per approdare infine all’ “essenza”(scusami Max) delle sue intuizioni: l'”Unico” è il frutto cosciente, deliberato, perpetrato e ricercato di oltrepassamento di qualsiasi forma di oggettività e soggettività del cogitare umano. Il rifiuto di qualsiasi forma di dualismo. Tentativo perfettamente riuscito. Il nostro non si nasconde proprio, lo dice a chiare lettere, è che siamo noi, imbevuti di dogmi, a non accorgercene : <Come si può voler sostenere della filosofia che abbia portato libertà, dal momento che non ci ha liberati della schiavitù dell’oggettività(l’Unico e la sua proprietà pag.239) <Quando Fichte dice: l’Io è tutto, sembra che ciò si armonizzi perfettamente con quello che enuncio io. Non è vero che l’Io è tutto: è vero solo che l’io distrugge tutto, e soltanto l’io che dissolve se stesso, l’io che non è mai Essente, l’io finito, è veramente io. Fichte parla dell’Io assoluto, io invece parlo di me, dell’io caduco.(ibid.pag.457)
Introduco molto volentieri un articolo trovato in rete riguardo una prospettiva poco conosciuta ma dal carattere fortemente suggestivo,se vogliamo provocatorio, inerente i legami e le differenze che legano due tradizioni di pensiero che sono apparse in epoche e luoghi altri,apparse fino ad oggi inconciliabili, ma che sotto l’apparente diversità presentano sorprendenti punti di convergenza che aiutano a rinforzare entrambe proprio in alcuni passaggi critici rispetto ad una prassi che li definisce utopistici: sto parlando della relazione tra il Buddismo e l’Anarchismo, come ben spiegato in questo intervento di Ian Mayes. In seguito traccerò una mia personale critica,secondo uno stilema che mette a confronto vari autori in un incrocio dialettico ed esperenziale da cui poter trarre una conclusione ampia e praticabile pur in un contesto intellettuale così complesso,dato dalla vastità delle scuole presenti sia nel Buddismo che nell’Anarchismo, che si muovono tradizionalmente rispettando piu’ un pensiero polifonico che un pensiero singolo,pur in uno spartito tradizionale che permette diverse improvvisazioni.
IMMAGINARE UN ANARCHISMO BUDDHISTA
Ian Mayes
Considero importante l’anarchismo buddista per due ragioni. Essenzialmente per me il buddhismo concerne la liberazione personale dell’individuo da sofferenze non necessarie. L’anarchismo per me è essenzialmente liberare il mondo, attraverso una profonda trasformazione sociale e politica, dal dolore non necessario. Siamo noi stessi a creare tutto questo dolore e questa sofferenza non necessari. La distinzione fra i due è che il dolore di solito è qualcosa di fisico o qualcosa di “esterno”; è ciò che di solito intendiamo quando pensiamo al dolore. C’è anche il dolore affettivo, quello che proviamo dopo la perdita di una persona amata. La sofferenza è quel particolare tipo di angoscia che insorge quando siamo presi dall’idea che qualcosa che sta accadendo “non dovrebbe” accadere e che qualcosa che non sta accadendo “dovrebbe” accadere. Ciò trasforma qualunque dolore preesistente in qualcos’altro, in qualcosa di peggiore che è la sofferenza. La sofferenza è creata dalle nostre abitudini mentali, dalle cose a cui scegliamo di dedicare attenzione e dai pensieri che decidiamo di coltivare. Il dolore, invece, è inevitabile nella vita, anche se i sistemi sociali e le istituzioni che l’umanità ha scelto per organizzare il mondo crea per le persone più dolore del necessario. Un anarchismo buddhista dovrebbe al contempo eliminare la sofferenza non necessaria nella psiche e il dolore non necessario nel mondo, portando più gioia e un maggior apprezzamento della vita. L’altra ragione per cui considero importante un anarchismo buddhista è che io considero le due filosofie complementari nel senso che esse si completano a vicenda. Si tratta, per così dire, dell’unione del personale e del politico, dello psicologico e del sociale. Sarebbe la liberazione nel suo senso più pieno, sia sul piano personale individuale che all’interno del contesto sociale più allargato. La filosofia dell’anarchismo implica la necessità di un mutamento fondamentale nella coscienza delle persone. Se vogliamo un mondo nuovo senza dominatori, senza proprietà e senza autorità, le persone avrebbero bisogno di abituarsi a vivere esercitando maggiore benevolenza, attenzione, cura e flessibilità reciproche. Tuttavia, questo mutamento di coscienza raramente viene esplicitamente dichiarato o elaborato nelle analisi degli anarchici e le abilità necessarie per far sì che le persone possano raggiungere questo mutamento di coscienza non vengono quasi mai insegnate nei circoli anarchici. L’altro angolo di prospettiva su questo tema riguarda l’argomento del cosiddetto buddhismo impegnato: troppo spesso il buddhismo diventa, in pratica, uno strumento per evadere dal mondo, per ignorare le sofferenze degli altri contribuendo ciecamente alle ingiustizie del mondo. Se si desidera veramente la liberazione di tutti gli esseri, allora ci si dovrebbe inevitabilmente sentire attratti verso un impegno sociale profondo che abbia questo obiettivo.
Il tempo passa
Non esiste una vera e propria filosofia preesistente già formulata che affronta in profondità il tema dell’anarchismo buddhista. Varie persone hanno utilizzato questa etichetta per descrivere se stesse; diversi articoli, diversi post di blog, registrazioni audio o video sono stati scritti o fatti, ma non esiste una vera e propria tradizione di pensiero per quanto riguarda l’anarchismo buddhista in quanto tale. Questo termine venne per la prima volta registrato nell’uso cinquanta anni fa, nel 1961, da Gary Snyder nel suo saggio intitolato Buddhist anarchism. Il fatto che Snyder sia ancora vivo significa che ci troviamo ancora nel periodo della prima generazione di anarchici buddhisti viventi. La cosa nel suo insieme è ancora per lo più nella sua fase iniziale di formazione, il che significa che tutti potremmo in questa fase contribuire a definire e a circoscrivere ciò che vorremmo fosse una filosofia classificabile come anarchismo buddhista. Vorrei qui anch’io offrire un mio ulteriore contributo alla definizione di ciò che dovrebbe includere una tale filosofia, questa volta attingendo maggiormente (rispetto al mio precedente saggio) ai principi che formano il nucleo della filosofia buddista.
Per essere più precisi
Una cosa che vorrei dire subito è che non considero l’anarchismo buddhista connesso in qualsiasi modo ai vari governi tirannici, alle superstizioni religiose e alle tradizioni patriarcali associate al buddhismo in varie regioni del mondo. Il tipo di buddhismo cui si collega l’anarchismo buddhista è quello insito nei principi filosofici di base del buddhismo stesso. Le varie scuole buddhiste che presentano aspetti che contrastano con la filosofia dell’anarchismo non fanno parte dell’anarchismo buddhista per come lo vedo io. Ammetto sicuramente che esistono al mondo diversi tipi di filosofie buddhiste. Come del resto esistono molti diversi tipi di filosofie anarchiche. Tutto considerato, ciò significa che esistono innumerevoli modalità in cui l’anarchismo buddhista può prendere forma ed essere espresso da persone diverse. La mia stessa formazione, che influenza la mia prospettiva sull’anarchismo buddhista, proviene dalla mia esperienza della meditazione vipassana, la quale deriva da una tradizione buddista Theravada, e dall’anarco-comunismo associato agli scritti del filosofo anarchico russo Petr Kropotkin.
Componenti chiave
Nonostante le tante diversità all’interno del buddhismo, esistono al suo interno dei principi chiave che tutte le diverse tradizioni hanno in comune. Prendendo in considerazione questi elementi, noto diversi parallelismi e incroci possibili con la filosofia dell’anarchismo. A iniziare dalle Quattro Nobili Verità. La Prima nobile verità del buddhismo è che la sofferenza esiste dappertutto. Ovunque si guardi si vedono persone in stato di bisogno o che in qualche modo sperimentano un qualche grado di sofferenza nelle loro vite. Ciò trova corrispondenza con la filosofia anarchica secondo cui il mondo in cui viviamo è organizzato in modo fondamentalmente corrotto e dannoso per la vita. Dappertutto gli anarchici condividono la stessa opinione di considerare il mondo e la società profondamente e pervasivamente contro la vita. Il mondo come lo conosciamo è davvero messo male! La Seconda nobile verità del buddhismo dice che il dolore ha una causa e che questa causa sono la brama, l’avversione e l’ignoranza. In altre parole, il dover avere qualcosa, il dover evitare qualcosa o il semplice rifiutarsi di considerare la vita così com’è sono le cause del dolore. Queste tre cause della sofferenza per l’anarchismo sono correlate con le istituzioni del capitalismo e dello stato e con la condizione di dominio che esse generano, causa di tutta la corruzione e dell’oppressione del mondo. Il dominio trova la sua radice nella brama e l’avversione per essa nasce quando coloro i quali stanno in cima alla gerarchia devono avere quello che vogliono a modo loro, anche se a spese degli altri e non sono tollerate o permesse altre possibilità. Gli anarchici spesso condannano anche l’ignoranza che domina la società considerandola una parte fondamentale del problema. Gli anarchici sottolineano la tendenza delle persone della nostra società a ignorare o a trascurare le varie ingiustizie e gli orrori che esistono nel nostro mondo, mentre invece concentrano l’attenzione su argomenti triviali, superficiali o di intrattenimento. Questa dinamica sociale del distrarsi in continuazione fa sì che tutte le ingiustizie e gli orrori continuino. La Terza nobile verità del buddhismo è che è possibile vincere la sofferenza. Esiste una condizione psico-spirituale chiamata nirvana o illuminazione e ogni individuo, sforzandosi, riesce a raggiungerla. Il parallelo tra questa condizione e l’anarchismo è la visione utopica di una nuova società che esista senza lo stato o il capitalismo, senza dominio o gerarchie e che sia invece basata su persone libere che si organizzano insieme direttamente in quanto uguali e che mettano in comune le risorse del mondo condividendole. In modo simile all’asserzione buddhista che ritiene possibile raggiungere questa condizione radicalmente diversa attraverso i propri sforzi, anche gli anarchici asseriscono che le società e le persone sono in grado di creare questo mondo radicalmente diverso attraverso i propri sforzi. La Quarta nobile verità del buddhismo è che esiste un sentiero preciso e ben delineato da seguire per raggiungere il nirvana. Questo sentiero si chiama Nobile ottuplice sentiero. Evito qui di affrontare ciascun punto del nobile ottuplice sentiero (magari lo farò in un altro articolo). Invece, prenderò in considerazione le tre categorie in cui viene diviso lo stesso ottuplice sentiero: moralità (sila), padronanza della propria mente (samadhi) e saggezza esperienziale (panna). Anche per la filosofia dell’anarchismo esiste un mezzo esplicitamente indicato per ottenere una rivoluzione sociale che ha tre diverse componenti. Ciò comprende pratiche che sono caratterizzate dai principi della politica prefigurativa, dell’auto-organizzazione e dell’azione diretta. Il concetto buddista di moralità (sila) significa fondamentalmente che non bisogna fare o dire cose che siano dannose per altri e che bisognerebbe sentirsi spinti a fare e dire cose che siano invece di aiuto per il prossimo. L’idea è che se una persona fa o dice cose che sono dannose per altri, quella persona in quello stesso momento sta facendo del danno a se stesso, sia psicologicamente che spiritualmente. La moralità buddista (sila) corrisponde alla nozione anarchica di politica prefigurativa, il principio secondo cui le azioni e i progetti che una persona mette in pratica dovrebbero riflettere il tipo di mondo che si vuole realizzare in futuro. In altre parole, “Sii il cambiamento che desideri vedere nel mondo”. Al cuore di una moralità anarchica, espressa attraverso una pratica prefigurativa, sarebbero relazioni in cui viene rispettata l’autonomia di ciascun individuo, senza coercizioni, e in cui vengono valorizzati allo stesso modo i bisogni di ognuno. Nell’insieme ciò dovrebbe voler dire che le azioni e i progetti di una persona siano attuati a beneficio di altri oltre che di se stessi e che siano messi in pratica per assicurare un futuro migliore oltre che per il presente. Il padroneggiare la propria mente (samadhi) significa sviluppare la capacità di controllare i pensieri che ognuno coltiva nella propria mente in un qualsiasi momento, riuscendo a scegliere dove ognuno mette la propria attenzione e riuscendo a prendere chiaramente decisioni e a dar loro un seguito. La meditazione è il tipo di pratica che viene usata per sviluppare il controllo della propria mente. La correlazione con l’anarchismo che metto in parallelo col controllo della propria mente è il principio dell’auto-organizzazione, il fatto cioè che un gruppo di persone organizzano insieme le proprie azioni, direttamente e democraticamente senza utilizzare gerarchie sociali o gruppi all’infuori del proprio per prendere decisioni in merito agli stessi componenti del gruppo. Perché questi gruppi sopravvivano e prosperino in modo auto-organizzato devono sviluppare strumenti per facilitare l’auto-organizzazione, dove l’attenzione del gruppo sia concentrata su una data situazione, prendendo decisioni collettive e mettendole in pratica in modo efficace. In un certo senso samadhi e auto-organizzazione sono entrambi forme di auto-organizzazione, solo che in un caso essa si verifica a livello individuale e nell’altro caso si verifica a un livello sociale più ampio. L’auto-organizzazione all’interno di un gruppo richiederebbe lo stesso tipo di coesione, chiarezza e auto-disciplina che sono caratteristiche della condizione di samadhi. La saggezza esperienziale (panna) significa sperimentare una più profonda conoscenza della natura dell’esistenza personalmente e direttamente. Questo tipo di comprensione va oltre ciò che può essere letto nei libri o in scritti vari. Anzi, essa va oltre tutto ciò che può essere adeguatamente espresso in parole. Deve essere vissuto per essere capito. Ciò può essere messo in relazione col principio anarchico dell’azione diretta, ossia la capacità di soddisfare bisogni e di rendere necessari cambiamenti senza che qualcun altro ci dica di farlo e senza chiedere permesso di farlo a una qualche forma di autorità. Ciò può essere messo in relazione col fatto che quanto si apprende nel processo di attuazione dell’azione diretta e i tipi di cambiamenti che questa produce all’interno delle persone mediante la medesima azione diretta va oltre qualsiasi cosa possa essere appreso o acquisito esclusivamente attraverso documenti scritti o parole. L’azione diretta produce un mutamento profondo e fondamentale nelle persone, molto simile ai mutamenti che avvengono attraverso il panna. Sono entrambi mutamenti sul piano esperienziale diretto. L’azione diretta spazza via le illusioni dell’autorità, panna manda in frantumi le illusioni in quanto tali. Quando si riesce a vedere in prima persona che le cose vengono fatte senza autorità, ci si accorge che l’autorità non è che uno spaventapasseri, un uomo di paglia. Quando si sperimenta la verità che sta oltre le parole, ci si accorge quanto insignificanti siano le parole.
Segnare una nuova esistenza
Il buddhismo presenta anche una speciale concezione della natura del nostro mondo. Ciò viene riassunto da ciò che viene indicato con I tre segni dell’esistenza. Prendendo in considerazione ciascuno di questi segni, ho capito che possono formare la base di un argomento a favore di un mondo anarchico. I tre segni dell’esistenza sono l’impermanenza (anicca), la sofferenza (dukka) e il non-sé (anatta). L’idea alla base dell’impermanenza (anicca) è che tutto cambia, tutto viene e va e niente rimane uguale per sempre. “Anche questo passerà”. Secondo me ciò può essere un argomento a favore dell’anarchismo perché la complessità e la natura costantemente mutevole di cose e situazioni sono aldilà della capacità di comprensione o di gestione da parte delle figure che rappresentano l’autorità e delle burocrazie istituzionali. Le cose cambiano troppo e troppo spesso per riuscire a stare al passo. Nella mia opinione le persone che vivono e sperimentano in prima persona i cambiamenti sono quelli che sono nella posizione migliore per capire come cambiano le situazioni e sono quindi nella posizione migliore per affrontarle in modo adeguato. Per coloro i quali sono tagliati fuori dalla situazione stessa o staccati da altri che la sperimentano, la comprensione può essere solo parziale. La sofferenza (dukka) è stata già discussa sopra come prima nobile verità del buddhismo. È incontestabile che la sofferenza esista e che sia una parte fondamentale dell’esperienza umana. Ciò a sua volta si correla a un argomento a favore dell’anarchismo perché il mondo in cui viviamo attualmente è pieno di un immenso dolore e di una immensa ingiustizia, che ciò non è necessario e che possiamo fare qualcosa per cambiare la situazione. Il terzo segno dell’esistenza è il non-sé (anatta), il che significa che non esiste un sé permanente fondamentale come individuo. In altri termini, tutto ciò che comprende il “tu” è così contingente rispetto agli innumerevoli fattori e variabili − siano essi di tipo biologico, sociale, culturale, materiale, ecc. − che non esiste alcun fondamentale sé centrale che esista indipendentemente da tutto. Cioè, se si tolgono tutte le influenze e componenti concomitanti provenienti da diverse fonti, nulla rimane. La correlazione anarchica col non-sé (anatta) è che tutte le nozioni di proprietà, status sociale e potere politico esistono come meri costrutti sociali costituiti da innumerevoli fattori diversi tutti coincidenti. Gli sforzi di innumerevoli persone si sono combinati per creare un oggetto materiale che qualcuno considera “suo”. Generazioni di acquiescenza, obbedienza e la costruzione sociale del significato si sono combinati fino a creare ciò che viene chiamato un “re” oppure un “politico”. Tutti i tipi di fattori rinforzati da decine di persone hanno creato ciò che abbiamo adesso. Nessun Intervento Divino è intervenuto a creare relazioni di dominio e nemmeno il capitalismo e lo stato esistono naturalmente dall’inizio del tempo. Abbiamo creato tutto da noi, insieme e non esisterebbe senza di noi,
Otto correnti che portano a una
C’è chi ha detto che l’intero buddhismo può essere sintetizzato nella seguente espressione: “Abbandona le qualità insane, coltiva le qualità sane e purifica la tua mente”. La versione anarchica può essere: “Abbandona il capitalismo e il modo di fare le cose basato sull’organizzazione statale, crea e partecipa a modi di fare le cose liberi e basati sulla cooperazione e purifica la tua mente dalla programmazione convenzionale basata sul dominio che la riempie (che riempie la stessa mente)”. Ma a che cosa assomiglia tutto questo in pratica? E a che cosa assomiglierebbe un approccio anarchico specificamente buddhista? Procedendo verso questo fine io ho identificato otto diverse pratiche, progetti o sotto-culture preesistenti che io credo, intessuti insieme, potrebbero formare il tessuto di ciò che potrebbe diventare una pratica anarchica propriamente buddista. Nessuno di questi fattori è esplicitamente anarchico buddhista di per sé, ma essi formano le fondamenta iniziali per la sua espressione concreta. 1) Il Buddhismo impegnato (Engaged Buddhism): è qui che si incontrano formalmente buddhismo e attivismo, dove i buddhisti fanno attivismo (o gli attivisti praticano il buddhismo). Sotto questo nome vari gruppi come Buddhist Peace Fellowship, Zen Peacemakers e Thich Naht Hanh svolgono attività politiche e sociali. Si potrebbe dire che un anarchismo buddhista per definizione è una sorta di buddhismo impegnato. L’unica differenza è che l’orientamento politico in questo caso è di tipo radicale-anarchico. 2) Vegetarianismo, veganismo, liberazione animale: ci sono delle persone − e anarchici e buddhisti sono spesso fra loro − che dicono che gli animali hanno diritti, che gli animali dovrebbero essere liberi e che dovrebbero essere trattati con cura e rispetto. In pratica, questo punto di vista può essere espresso rifiutando di mangiare carne di animali, astenendosi completamente da prodotti di origine animale o impegnandosi in azioni più militanti per liberare gli animali dalla cattività. Da un punto di vista anarchico ciò può essere giustificato dal desiderio di eliminare tutte le forme di dominio e di oppressione e la cattività e l’uccisione di animali possono essere considerate una forma di queste. Da un punto di vista buddista ciò può essere giustificato dal desiderio di compassione per tutti gli esseri viventi, dal desiderio riassumibile nella frase “Che tutti gli esseri siano liberati”. 3) Il Progetto di Meditazione Pubblica (Public Meditation Project) e i flash mob della meditazione: spesso gli anarchici desiderano rivendicare spazi pubblici, aprire spazi a tutti fuori dal controllo dello stato o della proprietà privata. I buddhisti spesso vogliono che altra gente venga a conoscenza della meditazione e che la pratichi. Mettete insieme le due cose e avrete il Progetto di meditazione pubblica, uno sforzo teso a mettere insieme persone per praticare la meditazione in spazi pubblici aperti. Questo può essere fatto come flash mob per la meditazione, ossia persone che si accordano in modo semi-spontaneo di ritrovarsi insieme nello stesso tempo e luogo per meditare in pubblico. Occupare spazi pubblici non deve essere per forza fatto in modo aggressivo; al contrario, trattandosi di meditazione, non c’è bisogno neppure di parlare. Può essere fatto sedendosi in completo silenzio e tranquillità. 4) Dharma Punx: dalla fine degli anni ’70 e dagli inizi degli anni ’80 la filosofia dell’anarchismo e la musica punk rock sono stati fortemente associati l’una all’altra. La sotto-cultura anarchica spesso si mischia alla sottocultura del punk rock e viceversa. Come risultato degli sforzi di autori come Noah Levine, Brad Warner e altri, si è creata una nuova sottocultura di punk buddhisti detta Dharma Punx. Anche se non sono esplicitamente anarchici, gli scritti di Noah Levine fanno come minimo riferimento, anche solo casuale, al fatto che quanto da lui sostenuto è rivoluzionario e radicale. Spesse volte, all’interno di questa sottocultura, lo stesso Buddha viene chiamato il santo ribelle. Questa particolare sottocultura ha probabilmente fatto moltissimo per aiutare a sviluppare una cultura anarchica buddhista. 5) La Comunicazione nonviolenta (Nonviolent Communication) e la Comunità per la Trasformazione della Coscienza (Consciousness Transformation Community): la comunicazione nonviolenta (NVC) è una pratica che deriva dal settore dell’auto-aiuto (self-help). Si tratta di una serie di strumenti concettuali e interpersonali che possono essere applicati per contribuire a risolvere conflitti tra persone, sviluppando chiarezza e sensibilità nell’ascoltare gli altri. Da una prospettiva buddista ciò può essere interpretato come una sorta di Retta Parola applicata (parte dell’Ottuplice sentiero). Da una prospettiva anarchica i principi e la teoria basilari della NVC rigettano esplicitamente le relazioni di dominio e la NVC viene considerata come un metodo per contribuire a superare le relazioni di dominio. Più recentemente dalla NVC è emerso qualcosa che si chiama Comunità per la Trasformazione della Coscienza (CTC). La CTC si basa su un insieme di 17 impegni che fondamentalmente riassumono il tipo di coscienza cui tende la NVC. Nel contesto delle relazioni interpersonali, NVC e CTC possono essere considerate strumenti e cornici per praticare l’anarchismo buddhista. 6) Straightedge: nella sottocultura punk hard-core esiste una tendenza chiamata radical political straightedge (o semplicemente straightedge), una sorta di intersezione sociale in cui le persone che aderiscono alla musica punk-rock sostengono anche vedute politiche radicali e si astengono da qualsiasi forma di consumo di alcol, uso di droghe ricreative e in generale da altre forme di intossicazione. All’interno della moralità buddista (sila) esiste un precetto per cui chi sceglie una linea di evoluzione buddhista si impegna a evitare tutte le forme di intossicazione. Lo straightedge può essere considerato un passo lungo il sentiero dell’anarchismo buddhista all’interno di un contesto (sotto)culturale. 7) Ateismo buddhista e Buddhismo critico: c’è un autore chiamato Stephen Batchelor che è un ex monaco buddista (sia di tradizione tibetana che di tradizione zen) che ha rinunciato alla vita monastica. Di recente ha scritto dei materiali su ciò che chiama ateismo buddhista. Questo approccio si caratterizza per aver escluso dal Buddismo idee metafisiche come le nozioni di rinascita e re-incarnazione e la credenza in divinità e in cosmologie più alte e più basse. Un lavoro simile è stato attuato in Giappone dal cosiddetto Buddhismo critico. Diversi studiosi buddhisti giapponesi hanno inteso modernizzare il credo buddhista per renderlo più adeguato e applicabile al pubblico contemporaneo. Dato che la maggior parte degli anarchici sono atei (della serie né Dio, né padroni), o almeno provengono da un contesto occidentale di tipo laico, tali forme di buddhismo sarebbero i più appropriati a un anarchismo buddista. 8) L’economia del dono: è un modo di organizzare l’economia in cui tutte le merci e i servizi vengono offerti gratuitamente come dono. Niente viene offerto con uno scontrino o come parte di una transazione o di uno scambio. Tutto viene dato senza condizioni. Le persone possono regalare cose al donatore originario (al primo che dona) ma ciò viene fatto come dono in sé, non come pagamento o rimborso. Diversi eventi e progetti anarchici operano come economia del dono, come del resto avviene anche per molti eventi e progetti buddhisti. All’interno del contesto buddhista, la pratica di operare con una economia del dono è connessa con la virtù (paramita) della dana (generosità). All’interno del contesto anarchico, l’economia del dono formerebbe la base di una società anarchico-comunista. All’interno dell’economia del dono vi sono molte potenzialità da esplorare.
Lasciarsi andare alla libertà
Forse il riassunto più succinto e più preciso del buddhismo sta in questa citazione attribuita al Buddha Gotama: “Non bisogna sentirsi legati a nulla”. Sentirsi legati a idee di come le cose dovrebbero essere, a cosa bisognerebbe che accadesse, ecc. è uno dei modi sicuri per sperimentare sofferenza. Allo stesso modo, per gli anarchici, anche aggrapparsi a idee di come il mondo dovrebbe sembrare, a come i progetti dovrebbero essere messi in pratica, a idee di identità o purezza ideologica hanno causato e causano molta sofferenza. Io credo che uno dei maggiori contributi che il buddhismo possa rendere all’anarchismo è esattamente questa pace della mente che deriva dal non aggrapparsi a nulla. Senza sentirsi legati, la disperazione, l’ansia e il fare affidamento su amici e compagni spariscono. I progetti, invece, si possono mettere in pratica con calma, chiarezza e un senso di ampiezza interiore. Ciò a sua volta ci mette in sintonia col tipo di mondo in cui vorremmo vivere.
Assumersi la responsabilità
Detto tutto questo, voglio sottolineare che anarchismo e buddhismo non sono la stessa cosa. Sono due tradizioni separate. Vi sono due tradizioni che si completano come due facce della stessa medaglia della vera e totale liberazione. L’anarchismo buddhista è qualcosa di nuovo, anche se ha radici molto lunghe e antiche. La mia speranza con lo scrivere tutto questo è aiutare a creare uno spazio perché questa nuova realtà emerga ulteriormente. Entrambe le tradizioni sottolineano la responsabilità e il fatto che gli individui assumano su di sé la responsabilità nella maniera più completa possibile. La stessa cosa dicasi del futuro della filosofia e della pratica dell’anarchismo buddhista. Se vogliamo che questo cresca, che si sviluppi e che evolva, la responsabilità è nostra. Come accade con tutte le cose, quando si arriva al sodo, tutto dipende sempre da noi.
(Traduzione a cura di Giuseppe Chia da: http://parenthesiseye.blogspot.it/2011/11/envisioningbuddhist-anarchism.html)
Maneggiare un autore particolare come Fernando Pessoa mi crea forte imbarazzo e sincera apprensione, non tanto per la scarsa conoscenza, avendo presente nella mia biblioteca solo il leggendario “Libro dell’inquietudine“, quanto per gli abissi mentali a cui questo scrittore, considerato con Borges uno dei massimi poeti del XX secolo, ti conduce con alacre perizia.Cosa si deve pensare di un artista che passa tutta la sua vita,fin dall’età di sette anni, alla creazione di pseudonimi, ed in seguito di eteronimi ?( gli eteronimi sono personalità poetiche complete: identità che, inizialmente inventate, divengono autentiche attraverso la loro personale attività artistica, diversa e distinta da quella dell’autore originale).Nella lettera ad Adolfo Casais Monteiro del 13 gennaio 1935, interrogato da questo sulla genesi dei suoi eteronimi, scrive: “L’origine dei miei eteronimi è il tratto profondo di isteria che esiste in me. […] L’origine mentale dei miei eteronimi sta nella mia tendenza organica e costante alla spersonalizzazione e alla simulazione. Questi fenomeni, fortunatamente, per me e per gli altri, in me si sono mentalizzati; voglio dire che non si manifestano nella mia vita pratica, esteriore e di contatto con gli altri; esplodono verso l’interno e io li vivo da solo con me stesso.»
Un profondo disturbo mentale che diventa arte e pensiero vertiginoso;ci sarebbe tanto da scrivere su cosa sia la pazzia o la normalita’,ma andrei come si dice fuori tema.Tengo per me l’inquietudine ammirata scaturente dal percorrere i sentieri mentali del poeta portoghese per soffermarmi su un libro da lui scritto e a me colpevolmente sconosciuto fino ad oggi, che viene a proposito per contribuire ad approfondire il ruolo della libertà nella teoria anarchica. Conoscendo parzialmente gli interessi e gli scritti di Pessoa,riguardanti poemi,poesie,opere disperse e pubblicate dopo la sua morte,per la gioia di esegeti ed editori alla scoperta dei suoi giacimenti letterari, viste dall’occhio di un autore che si definisce conservatore di stile inglese, cioè liberale all’interno del conservatorismo e assolutamente antireazionario, rimango stupito scoprendo che ebbe anche a scrivere un libricino il cui titolo mi appare assolutamente attraente, cioè “Il banchiere anarchico“, da cui sono stati tratti piéce teatrali ed un recente film del regista Giulio Base. Da subito il titolo del libro appare un ossimoro,una contraddizione in termini,un ircocervo di dubbia utilità, però ha l’enorme pregio di mettere in dubbio ,con solide argomentazioni razionali, l’impossibilità della messa in pratica della teoria libertaria. Lascio al lettore il giudizio sull’opera di Pessoa, di gradevole lettura,che pone questioni riguardanti teorie e pratiche politiche nel domestico alveo della personale interrogazione psicologica e di scelta di vita,come solo un simile autore sa fare, per soffermarmi infine sulle confutazioni e riletture del pensiero anarchico rischiarato da un punto di vista così severo come quello del grande portoghese, o chi per lui se trattasi di uno dei suoi innumerevoli eteronimi.
IL BANCHIERE ANARCHICO
Avevamo appena finito di cenare. Di fronte a me il mio amico, il banchiere, grande commerciante e notevole monopolista, fumava come uno che non ha pensieri. La conversazione, che si era andata spegnendo a poco a poco, giaceva morta fra di noi. Tentai di rianimarla, a caso, servendomi di una idea che mi balenò in mente mentre riflettevo. Mi rivolsi a lui e gli sorrisi. «Pensi: tempo fa mi hanno detto che lei, in passato, è stato anarchico». «Non che lo sia stato: lo sono stato e lo sono. Non sono cambiato in questo. Sono anarchico». «Questa è buona! Lei anarchico! In che cosa è anarchico?… Solo se dà alla parola un significato diverso… » «Da quello comune? No, proprio no. Uso la parola nel senso comune». «Intende dire, dunque, di essere anarchico esattamente nello stesso senso in cui sono anarchici quei tizi delle organizzazioni operaie? Allora fra lei e quei tizi delle bombe e dei sindacati non c’è nessuna differenza?» «Di differenze, di differenze ce ne sono… È chiaro che c’è differenza. Ma non quella che pensa lei. Crede forse che le mie teorie sociali siano uguali alle loro?» «Ah, ho capito! Lei, in teoria, è anarchico; in pratica…» «In pratica sono tanto anarchico quanto lo sono in teoria. E in pratica lo sono di più, molto di più di quegli individui che lei ha citato. Tutta la mia vita lo dimostra». «Come?!» «Tutta la mia vita lo dimostra, ragazzo mio. Lei non è mai stato ben attento a queste cose. Perciò le pare che io stia dicendo una scemenza, o che la stia prendendo in giro». «Diavolo, non ci capisco niente!… A meno che… a meno che lei non giudichi la sua vita destabilizzante e antisociale e dia all’anarchia questo significato». «Le ho già detto di no — cioè, le ho già detto che non do alla parola “anarchia” un significato diverso da quello comune». «Va bene… Continuo a non capire… Senta, vuole dirmi che non c’è differenza fra le sue teorie veramente anarchiche e la pratica della sua vita — la pratica della sua vita come è adesso? Vuole che creda che lei ha una vita uguale in tutto e per tutto a quella degli individui che di solito si definiscono anarchici? » «No; non è questo. Quello che voglio dire è che fra le mie teorie e la pratica della mia vita non esiste alcuna divergenza, ma anzi un’assoluta conformità. Che io non abbia una vita come quella dei tizi dei sindacati e delle bombe, questo è vero. Ma è la loro vita a non essere in linea con l’anarchia, con i loro ideali. La mia no. In me — sì, in me, banchiere, grande commerciante, monopolista se vuole—, in me la teoria e la pratica dell’anarchia sono unite e ambedue provate. Lei mi ha paragonato a quegli sciocchi dei sindacati e delle bombe per indicare che sono diverso da loro. Lo sono, ma la differenza è questa: loro (sì, loro, e non io) sono anarchici solo in teoria; io, invece, lo sono nella teoria e nella pratica. Loro sono anarchici e stupidi, io anarchico e intelligente. Cioè, vecchio mio, sono io il vero anarchico. Loro — quelli dei sindacati e delle bombe (ci sono stato in mezzo anch’io e ne sono uscito proprio per la mia vera anarchia) — loro sono la spazzatura, le meretrici della grande dottrina libertaria». «Questa poi! Ma come! Come concilia la sua vita — voglio dire la sua vita bancaria e commerciale — con le sue teorie anarchiche? Come la concilia, se dice che per teorie anarchiche intende esattamente quello che gli anarchici comuni intendono? E lei, per di più, sostiene di essere diverso da loro perché più anarchico di loro — è vero o no?» «Certo». «Non ci capisco niente». «Ma lei ha voglia di capire?» «Tutta la voglia». Tolse dalla bocca il sigaro, che si era spento, lo riaccese lentamente; fissò il fiammifero che si consumava; lo depose con delicatezza nel portacenere. Poi, rialzando il capo che per un momento aveva chinato, disse: «Ascolti. Sono figlio del popolo e della classe operaia della città. Di buono non ho ereditato, come può immaginare, né la condizione, né le circostanze. Mi è solo capitato di avere un’intelligenza lucida e una volontà abbastanza forte. Ma questi erano doni naturali, che la mia bassa nascita non mi poteva strappare. Ho fatto l’operaio, ho lavorato, ho vissuto una vita difficile: sono stato, in breve, quello che la maggior parte della gente è in quell’ambiente. Non dico di aver patito la fame, ma ci sono andato vicino. Avrei potuto patirla, del resto, e questo non avrebbe cambiato nulla di quello che è accaduto dopo, o di quello che le sto per raccontare; né di quello che è stata la mia vita, né di quello che è adesso.
Sono stato un comune operaio, insomma; come tutti, lavoravo perché dovevo lavorare, e lavoravo il meno possibile. L’unica cosa è che ero intelligente. Appena potevo leggevo, discutevo e, siccome non ero stupido, sono sorti in me una grande insoddisfazione e un grande senso di ribellione contro il mio destino e contro le condizioni sociali che lo rendevano tale. Le ho già detto, in tutta sincerità, che esso avrebbe potuto essere peggiore di quello che era; ma a quel tempo mi sentivo un essere contro cui la sorte aveva commesso ogni tipo d’ingiustizia, servendosi delle convenzioni sociali per mandarle ad effetto. Questo accadeva quando avevo una ventina d’anni — ventuno, al massimo — e fu allora che divenni anarchico». Tacque per un momento. Si voltò un po’ di più verso di me. Poi riprese a parlare, inclinandosi ancora un poco. «Sono sempre stato più o meno lucido. Mi sono sentito indignato. Ho voluto capire la mia indignazione. Sono diventato anarchico conscio e convinto — l’anarchico conscio e convinto che sono oggi». «E la sua teoria di adesso, è la stessa di allora?» «Proprio la stessa. La teoria anarchica, la vera teoria, è una sola. La mia è quella che ho sempre sostenuto, fin da quando sono diventato anarchico. Vedrà… Stavo dicendo che, dato che ero lucido per natura, sono diventato un anarchico cosciente. Ora, che cos’è un anarchico? È una persona indignata nei confronti dell’ingiustizia di essere nati, noi, socialmente diversi — in fondo è solo questo. E da questo deriva, come si vedrà, la rivolta contro le convenzioni sociali che rendono possibile questa disuguaglianza. Quello che le sto mostrando adesso è il percorso psicologico, cioè come si diventa anarchici. E passiamo alla parte teorica della questione. Per ora, cerchi di capire quale sarebbe la rivolta di un individuo intelligente che venga a trovarsi nelle mie condizioni di allora. Cosa vede nel mondo? Uno nasce figlio di un milionario, protetto fin dalla culla contro quegli incidenti — e non sono pochi — che il denaro può evitare o limitare; un altro nasce miserabile; ossia, quando è bambino, è una bocca in più in una famiglia in cui di bocche ce n’è d’avanzo rispetto a quanto c’è da mangiare. Uno nasce conte o marchese, e per questo gode della considerazione di tutti: faccia pure quel che gli pare. Un altro nasce come me, e deve stare ben attento se vuole che lo trattino, almeno, come un essere umano. Qualcuno nasce in condizioni tali da poter studiare, viaggiare, istruirsi — diventare, si può dire, più intelligente degli altri che per natura lo sono di più. E così via, in tutto… Le ingiustizie della natura, va bene: non le possiamo evitare. Ora, quelle della società e delle sue convenzioni, queste, perché non evitarle? Accetto — non posso farci niente — che un uomo sia superiore a me per quello che la natura gli ha dato — il talento, la forza, l’energia; non accetto che sia superiore a me per qualche qualità posticcia, con la quale non è uscito dal ventre di sua madre, ma che gli è capitata per caso non appena è comparso al mondo: la ricchezza, la posizione sociale, la vita facile eccetera. Fu dalla rivolta che le sto illustrando con queste considerazioni che nacque la mia anarchia di allora — anarchia che, gliel’ho già detto, continuo a serbare in me senza differenza, inalterata». Si fermò di nuovo un momento, come per pensare a cosa dire poi. Fumò e soffiò il fumo lentamente, verso il lato opposto a quello dove mi trovavo io. Si voltò, e stava per proseguire. Io, però, lo interruppi. «Una domanda, per curiosità… Come mai è diventato proprio anarchico? Avrebbe potuto diventare socialista, o sposare qualsiasi altra idea progressista che non fosse così sovversiva, ma che fosse comunque in linea con la sua rivolta… Deduco da quanto ha detto che per anarchia lei intende (e penso che vada bene come definizione dell’anarchia) la ribellione contro tutte le convenzioni e le formule sociali, il desiderio e lo sforzo per l’abolizione di tutte…» «Esattamente». «Perché ha scelto questa formula estremista e non si è deciso per una delle altre… di quelle intermedie? » «Glielo spiego. Ho pensato a lungo a tutto ciò. È chiaro che nei volantini che leggevo potevo vedere tutte queste teorie. Ho scelto la teoria anarchica — estremista, come lei la definisce molto bene — per alcune ragioni che le esporrò in due parole». Guardò per un attimo nel nulla. Poi si rivolse a me. «Il vero male, l’unico male, sono le convenzioni e le finzioni sociali, che si sovrappongono alla realtà naturale: tutto, dalla famiglia al denaro, dalla religione allo stato. La gente nasce uomo o donna— voglio dire, nasce per essere nell’età adulta uomo o donna; non nasce, in un giusto stato di natura, né per essere marito, né per essere ricco o povero, come non nasce nemmeno per essere cattolico o protestante, portoghese o inglese. Tutte queste distinzioni vengono fatte in virtù delle finzioni sociali. Ora, queste finzioni sociali sono inique, ma perché? Perché sono finzioni, perché non sono naturali. Tanto iniquo è il denaro quanto lo stato, tanto l’organizzazione della famiglia quanto le religioni. Se ne esistessero altre, oltre a queste, sarebbero ugualmente inique, perché anch’esse sarebbero finzioni, perché anche esse si sovrapporrebbero e ostacolerebbero la realtà naturale. Ora, qualsiasi sistema che non sia il puro sistema anarchico, che vuole l’abolizione di tutte le finzioni e di ognuna di esse completamente, è anch’ esso una finzione. Impiegare tutta la nostra volontà, tutto il nostro sforzo, tutta la nostra intelligenza per instaurare, o per contribuire a instaurare una finzione sociale invece di un’altra è un assurdo, se non addirittura un delitto, perché vuol dire creare un sommovimento sociale con il fine dichiarato di lasciare tutto com’è. Se troviamo ingiuste le finzioni sociali, perché schiacciano e opprimono quanto c’è di naturale nell’ uomo, perché impiegare il nostro sforzo a sostituire queste finzioni con altre, se possiamo impiegarlo per distruggerle tutte? Questo mi sembra conclusivo. Ma supponiamo che non lo sia; supponiamo che ci obiettino che,per quanto giusto, il sistema anarchico non è realizzabile in pratica. Esaminiamo un po’ questo aspetto del problema. Per quale motivo il sistema anarchico non sarebbe realizzabile? Tutti noi progressisti partiamo dal principio che non solo l’attuale sistema è ingiusto, ma che è vantaggioso, perché ci sia giustizia, sostituirlo con un altro più giusto. Se non la pensiamo così, non siamo progressisti, ma borghesi. Ora, da dove viene questo criterio di giustizia? Da ciò che è naturale e vero, in opposizione alle finzioni sociali e alla falsità delle convenzioni. Ora, è naturale ciò che è interamente naturale, non ciò che è naturale a metà, o per un quarto, o per un ottavo. Molto bene. Ora, di due cose una: o ciò che è naturale è realizzabile socialmente o non lo è; in altre parole, o la società può essere naturale, o la società è essenzialmente finzione e non può essere naturale in alcun modo. Se la società può essere naturale, può esistere la società anarchica, o libera; e deve esistere, perché è quella la società interamente naturale. Se la società non può essere naturale, se (per qualche motivo che non importa) deve per forza essere finzione, allora il minore dei mali: facciamola, all’ interno di questa finzione inevitabile, nel modo più naturale possibile, affinché sia proprio per questo la più giusta possibile. Qual è la finzione più naturale? Nessuna è naturale in sé, perché è finzione; la più naturale, nel nostro caso, sarà quella che sembra più naturale, che noi sentiamo come più naturale. Qual è quella che sembra più naturale, o che sentiamo come più naturale? È quella alla quale siamo abituati. (Lei capisce: ciò che è naturale è ciò che viene dall’istinto; e quello che, non essendo istinto, assomiglia in tutto e per tutto all’istinto è l’abitudine. Fumare non è naturale, non è una necessità dell’ istinto, ma, se ci abituiamo a fumare, diventa per noi naturale, comincia a essere sentito come una necessità dell’istinto). Ora, qual è la finzione sociale che costituisce una nostra abitudine? È il sistema attuale, il sistema borghese. Ne deriva dunque, a rigor di logica, che o troviamo possibile la società naturale, e saremo difensori dell’anarchia; o non la giudichiamo possibile, e saremo difensori del regime borghese. Non esistono ipotesi intermedie. Capisce? » «Sissignore: questo è conclusivo». «No; c’è ancora un’altra obiezione dello stesso tipo da liquidare. Si può concordare che il sistema anarchico sia realizzabile, ma si può dubitare che sia realizzabile all’improvviso — cioè che si possa passare dalla società borghese alla società libera senza che ci siano uno o più stadi o regimi intermedi. Chi fa questa obiezione accetta come buona, o come realizzabile, la società anarchica; ma immagina che debba esserci uno stadio qualsiasi di transizione fra la società borghese e quella nuova. Benissimo. Supponiamo che sia così. Cos’è questo stadio intermedio? Il nostro fine è la società anarchica, o libera; questo stadio intermedio può essere solo, quindi, uno stadio di preparazione dell’ umanità alla società libera. Questa preparazione o è materiale, o è semplicemente mentale; cioè, o è una serie di realizzazioni materiali e sociali che adattano un po’ alla volta l’umanità alla società libera, o è una semplice propaganda che cresce e influisce gradualmente, che la prepara mentalmente a desiderarla e ad accettarla. Esaminiamo il primo caso, l’adattamento graduale e materiale dell’umanità alla società libera. È impossibile; è più che impossibile: è assurdo. Non esiste adattamento materiale se non a una cosa che già esiste. Nessuno di noi può adattarsi materialmente al livello sociale del secolo XXIII, anche nel caso sappia quale sarà; e non ci si può adattare materialmente perché il secolo XXIII e il suo livello sociale non esistono ancora materialmente. Così arriviamo alla conclusione che, nel passaggio dalla società borghese alla società libera, l’unico possibile adattamento (evoluzione o transizione) è mentale: cioè il graduale adattamento degli spiriti all’idea della società libera. In tutti i casi, nel campo dell’adattamento materiale, c’è ancora un’ipotesi…» «Basta con tante ipotesi!» «Ragazzo mio, l’uomo lucido deve esaminare tutte le obiezioni possibili e confutarle, prima di potersi dire certo della sua dottrina. E, per di più, tutto ciò è in risposta a una domanda che mi ha fatto lei». «Va bene». «Nel campo dell’adattamento materiale, dicevo, c’è in ogni caso un’altra ipotesi; quella della dittatura rivoluzionaria». «Dittatura rivoluzionaria in che senso?» «Come le ho spiegato, non può esserci adattamento materiale a una cosa che non esiste ancora materialmente. Ma se, con un brusco sommovimento, si fa la rivoluzione sociale, viene introdotta non la società libera (perché a questa l’umanità non può ancora essere preparata), ma una dittatura da parte di coloro che vogliono instaurare la società libera. Esiste già però, anche se a uno stadio embrionale, esiste già materialmente qualcosa della società libera. C’è già dunque una realtà materiale, alla quale l’umanità possa adattarsi. È questo l’argomento con cui gli imbecilli che sostengono la “dittatura del proletariato” la difenderebbero se fossero capaci di ragionare o di pensare. Il discorso, è chiaro, non è loro: è mio. Lo faccio come obiezione a me stesso. E, come le mostrerò… è falso. Un regime rivoluzionario, in quanto esiste, e qualunque sia il fine cui tende o l’idea che lo guida, è materialmente solo una cosa: un regime rivoluzionario. Ora, un regime rivoluzionario significa una dittatura di guerra, o, in sostanza, un regime dispotico, perché lo stato di guerra è imposto alla società da una sua parte — quella che ha preso il potere con la rivoluzione. Cosa ne risulta? Ne risulta che chi si adatta a questo regime, come all’unica cosa che è materialmente e immediatamente, si adatta a un regime militare dispotico. L’idea che ha condotto i rivoluzionari, la meta verso la quale tendevano, è completamente sparita dalla realtà sociale, che è occupata esclusivamente dal fenomeno bellico. Così, ciò che deriva da una dittatura rivoluzionaria — e in modo tanto più evidente quanto più questa dittatura durerà — è una società guerriera di tipo dittatoriale, cioè un dispotismo militare. Nient’altro. Ed è sempre stato così. Io non conosco molto la storia, ma quello che so concorda con questo; e non potrebbe essere altrimenti. Cosa è venuto fuori dalle agitazioni politiche di Roma? L’impero romano e il suo dispotismo militare. Cosa è venuto fuori dalla rivoluzione francese?Napoleone e il suo dispotismo militare. E vedrà cosa verrà fuori dalla rivoluzione russa… Qualcosa che ritarderà di decine di anni la realizzazione della società libera. Ma cosa dovevamo aspettarci da un popolo di analfabeti e di mistici? Be’, questo è già fuori tema… Ha capito il mio ragionamento?» «Perfettamente». «Lei capisce quindi che sono arrivato a questa conclusione:
fine: la società anarchica e libera, mezzo: il passaggio, senza transizione, dalla società borghese alla società libera.Questo passaggio sarebbe preparato e reso possibile da una propaganda intensa, completa, avvincente, tale da predisporre tutti gli spiriti e indebolire tutte le resistenze. È chiaro che per “propaganda” non intendo solo la parola scritta e parlata: intendo tutto, l’azione indiretta o diretta, qualsiasi cosa possa predisporre alla società libera e indebolire la resistenza al momento del suo avvento. Così, essendo assai scarsa la resistenza da vincere, la rivoluzione sociale, quando venisse, sarebbe rapida, facile, e non dovrebbe instaurare alcuna dittatura rivoluzionaria, non essendoci nessuno contro cui istituirla. Se questo non può essere, vuol dire che l’anarchia è irrealizzabile; e se l’anarchia è irrealizzabile, è difendibile e giusta solo la società borghese, come già le ho provato. Ora, lei mi ha chiesto perché e come sono diventato anarchico, perché e in che modo ho respinto come false e contro natura le altre dottrine sociali di minor audacia. E va bene… continuiamo la mia storia». Sfregò un fiammifero e accese lentamente il suo sigaro. Si concentrò, e dopo un attimo proseguì: «C’erano molti altri ragazzi con le mie stesse opinioni. La maggior parte di essi erano operai, ma c’era anche chi non lo era; eravamo tutti poveri e, per quanto mi è dato ricordare, non molto stupidi. Avevamo una certa volontà di istruirci, di apprendere, e nello stesso tempo il desiderio di propagandare e diffondere le nostre idee. Volevamo per noi e per gli altri — per l’umanità intera — una società nuova, libera da tutti quei preconcetti che rendono gli uomini disuguali artificialmente e impongono loro inferiorità, sofferenze, ristrettezze che la natura non ha imposto loro. Quanto a me, ciò che leggevo mi confermava queste opinioni. In libri libertari di poco prezzo — quelli che si trovavano all’epoca, ed erano già sufficienti — ho letto quasi tutto. Sono stato a conferenze e comizi dei propagandisti di quel tempo. Ogni libro e ogni discorso mi convincevano sempre più della sicurezza e dell’equità delle mie idee. Quello che pensavo allora — glielo ripeto, amico mio — è quello che penso oggi; l’unica differenza è che allora lo pensavo solamente, mentre oggi lo penso e lo metto in pratica». «Va bene, fin qui sono d’accordo. È fuor di dubbio che lei sia diventato anarchico così, e vedo perfettamente che lei era anarchico. Non ho bisogno di altre prove. Quel che voglio sapere è come da questo sia venuto fuori il banchiere, come ne sia venuto fuori senza contraddizioni. Cioè, più o meno, sto già calcolando…» «No, non calcoli niente. So cosa vuol dire. Lei si basa sui miei discorsi, che ha appena finito di sentire, e pensa che io abbia trovato l’anarchia irrealizzabile e quindi, come le ho detto, difendibile e giusta solo la società borghese, vero?» «Sì, ho pensato che fosse più o meno così». «Ma come poteva essere, se fin dall’inizio del discorso le ho detto e ripetuto di essere anarchico, che non solo lo sono stato ma che continuo a esserlo? Se fossi diventato banchiere e commerciante per la ragione che lei pensa, non sarei anarchico, ma borghese». «Sì, ha ragione. Ma allora come diavolo…? Su, su, mi dica…» «Come le ho detto, ero (lo sono sempre stato) abbastanza lucido, ed ero anche un uomo d’azione. Queste sono qualità naturali: non me le hanno messe nella culla (se mai ne ho avuta una), sono io ad averle sviluppate. Bene. Essendo anarchico, trovavo insopportabile essere anarchico solo in modo passivo, solo per ascoltare discorsi e parlarne con gli amici. No: bisognava fare qualcosa! Bisognava lavorare e lottare per la causa degli oppressi e delle vittime delle convenzioni sociali! Decisi di darmi da fare, per quanto fosse in mio potere. Mi misi a pensare a come avrei potuto essere utile alla causa libertaria. Cominciai a tracciare il mio piano d’azione. Che cosa vuole l’anarchico? La libertà: la libertà per sé e per gli altri, per tutta l’umanità. Vuole essere libero dall’influenza o dalla pressione delle finzioni sociali; vuole essere libero come quando è nato ed è comparso nel mondo, come deve essere secondo giustizia; e vuole questa libertà per sé e per tutti gli altri. Non tutti possono essere uguali di fronte alla natura: chi nasce alto, chi basso; chi forte, chi debole; uno più intelligente, l’altro meno… Ma da questo punto in avanti tutti possono essere uguali: solo le finzioni sociali fanno sì che ciò non avvenga. E proprio queste finzioni bisognava distruggere. Bisognava distruggerle, dunque, ma non mi è sfuggito un aspetto importante: bisognava distruggerle a vantaggio della libertà, e tenendo sempre ben in vista la creazione della società libera. Perché il fatto di distruggere le finzioni sociali può servire sia a creare libertà, o a preparare la via alla libertà, sia a stabilire altre finzioni sociali diverse, ugualmente inique perché ugualmente finzioni. Era qui che bisognava fare attenzione. Si doveva trovare un modo d’azione, qualunque fosse la sua violenza o la sua nonviolenza (perché contro le ingiustizie sociali tutto era legittimo), con cui si potesse contribuire a distruggere le finzioni sociali senza, al tempo stesso, ostacolare la creazione della libertà futura; gettando anzi, nel caso fosse possibile, le sue basi. È chiaro che questa libertà, che bisognava stare attenti a non ostacolare, è la libertà futura e, nel presente, la libertà degli oppressi dalle finzioni sociali. Va da sé che non dobbiamo salvaguardare la “libertà” dei potenti, dei ben piazzati, di tutti quelli che rappresentano le finzioni sociali e ne traggono vantaggio. Questa non è libertà; è libertà di tiranneggiare, l’esatto contrario della libertà. Noi dobbiamo ostacolarla e combatterla col massimo impegno. Mi sembra che questo sia chiaro». «Chiarissimo. Continui…» «Per chi l’anarchico vuole la libertà? Per l’umanità intera. Qual è il sistema per conseguire la libertà per l’umanità intera? Distruggere totalmente tutte le finzioni sociali. In che modo distruggere totalmente tutte le finzioni sociali? Le ho già anticipato la spiegazione quando, per rispondere alla sua domanda, ho discusso gli altri sistemi progressisti e le ho spiegato come e perché ero anarchico. Ricorda la mia conclusione?» «Sì, certo». «Una rivoluzione sociale improvvisa, brusca, radicale, che facesse passare la società, all’improvviso, dal regime borghese alla società libera. Una rivoluzione sociale preparata da un lavoro intenso e continuo, di azione diretta e indiretta, tendente a disporre tutti gli spiriti verso l’avvento della società libera, e a indebolire fino allo stato comatoso tutte le resistenze della borghesia… Mi scusi se le ripeto le ragioni che portano inevitabilmente a questa conclusione, in linea con il pensiero anarchico; gliele ho già esposte e lei le ha già capite». «Sì». «Questa rivoluzione, di preferenza, dovrebbe avvenire su scala mondiale, in tutti i paesi simultaneamente, o nei punti strategici del mondo; oppure, in caso contrario, propagandosi con rapidità da uno stato all’altro; ma comunque in ogni punto, cioè in ogni nazione, fulminea e completa. Bene. Cosa potevo fare io a questo scopo? Da solo non avrei potuto farla, la rivoluzione mondiale, e nemmeno avrei potuto fare la rivoluzione totale nel paese in cui mi trovavo. Potevo solo lavorare, col massimo sforzo, per preparare questa rivoluzione. Le ho già spiegato come: combattendo le finzioni sociali con tutti i mezzi possibili; senza ostacolare la lotta, ma sostenendola, e facendo propaganda alla società libera, alla libertà futura, alla libertà presente degli oppressi; creando già, qualora fosse possibile, le basi della futura libertà». Tirò un po’ di fumo; fece una breve pausa; poi ricominciò. «A questo punto, amico mio, la mia lucidità è entrata in azione. Lavorare per il futuro, va bene, pensavo; lavorare perché gli altri siano liberi, va bene. Ma io? Io non ero nessuno? Se fossi stato cristiano, avrei lavorato serenamente per il futuro degli altri, perché avrei avuto la mia ricompensa in cielo; ma se fossi stato cristiano non sarei stato anarchico, perché in questo caso le disuguaglianze non avrebbero avuto importanza nella nostra breve vita: avrebbero rappresentato i normali limiti della precaria condizione umana, e sarebbero state ricompensate con la vita eterna. Ma io non ero cristiano, così come non lo sono ora, e mi chiedevo: ma per chi devo sacrificarmi in questo modo? E poi, ancora: perché devo sacrificarmi? Ho avuto momenti di sfiducia; e lei capisce che erano giustificati. Sono materialista, pensavo; non ho altra vita che questa; per quale motivo devo affliggermi con propagande, disuguaglianze sociali e altri problemi, quando potrei godere e distrarmi molto di più se non mi preoccupassi di tutto ciò? Chi ha solo questa vita, chi non crede nella vita eterna, chi non ammette leggi al di fuori di quelle della natura, chi si oppone allo stato perché non è naturale, al matrimonio perché non è naturale, al denaro perché non è naturale, a tutte le finzioni sociali perché non sono naturali, per quale ragione predica l’altruismo e il sacrificio per gli altri, o per l’umanità, se l’altruismo e anche il sacrificio non sono naturali? Sì, la stessa logica che mi dimostra che un uomo non nasce per essere sposato, o per essere portoghese, o per essere ricco o povero, mi dimostra anche che egli non nasce se non per essere se stesso; niente affatto altruista e solidale, quindi, ma esclusivamente egoista. Ho discusso la questione tra me e me. Guarda, dicevo a me stesso, che apparteniamo per nascita alla specie umana, e che abbiamo il dovere di essere solidali con tutti gli uomini. Ma l’idea di “dovere” era naturale? Da dove veniva? Se essa mi obbligava a sacrificare il mio benessere, la mia comodità, il mio istinto di conservazione e gli altri miei istinti naturali, in che cosa divergeva l’azione di questa idea dall’azione di qualsiasi finzione sociale, che produce in noi esattamente lo stesso effetto? Quest’idea di dovere, di solidarietà umana, avrebbe potuto essere considerata naturale solo se avesse portato con sé una compensazione dal punto di vista dell’egoismo, perché allora, sebbene contraria di principio all’egoismo naturale, avrebbe fornito a tale egoismo una ricompensa, ristabilendo in questo modo l’equilibrio. Sacrificare un piacere, il solo fatto di sacrificarlo, non è naturale; sacrificare un piacere per un altro, be’, questo è secondo natura: significa, fra due cose naturali, se non si possono avere entrambe, sceglierne una; il che va benissimo. Ora, quale ricompensa egoistica, o naturale, poteva darmi la dedizione alla causa della società libera e della futura felicità umana? Solo la coscienza del dovere compiuto, dello sforzo per un buon fine; e nessuna di queste cose è una ricompensa egoistica, nessuna un piacere in sé, ma un piacere, se tale, nato da una finzione, come può essere il piacere di essere immensamente ricco, o il piacere di essere nato in una buona posizione sociale.
Le confesso, vecchio mio, che ho avuto momenti di sfiducia. Mi sono sentito sleale nei confronti della mia dottrina, come un traditore. Ma in poco tempo ho superato ogni dubbio. L’idea di giustizia è qui, dentro di me, ho pensato. Sentivo che essa era naturale. Sentivo che esisteva un dovere superiore alla semplice preoccupazione per il mio destino. E sono andato avanti nel proposito». «Non mi sembra che questa decisione riveli una grande lucidità da parte sua. Lei non ha risolto la difficoltà, lei è andato avanti seguendo un impulso del tutto sentimentale». «Senza dubbio. Ma quello che le sto raccontando adesso è la storia di come sono diventato anarchico, e di come ho continuato e continuo a esserlo. Le sto esponendo lealmente le esitazioni e le difficoltà che ho avuto, e come le ho vinte. Concordo sul fatto che, in quel momento, vincevo la difficoltà logica con il sentimento, e non con la ragione. Ma vedrà che successivamente, quando sono arrivato alla totale comprensione della dottrina anarchica, questa difficoltà, rimasta fino ad allora senza una risposta logica, ha avuto la sua soluzione completa e assoluta». «È curioso». «Sì. Adesso mi lasci continuare la mia storia. Avevo questa difficoltà, e cercavo di risolverla, anche se male, come le ho detto. Subito dopo, fra i tanti pensieri, è sorta un’altra difficoltà; e anch’essa mi ha lasciato abbastanza confuso. Mi stava bene, diciamo, di sacrificarmi senza alcuna ricompensa propriamente personale, voglio dire, veramente naturale. Ma supponiamo che la società futura non desse nulla di quanto speravo, che fosse impossibile costruire una società libera, per quale diavolo di motivo io, in questo caso, mi stavo sacrificando? Sacrificarmi per un’idea senza ricompense personali, senza guadagnare nulla col mio sforzo per questa idea, andava bene; ma sacrificarmi senza nemmeno avere la certezza che quello per cui lavoravo sarebbe esistito un giorno, senza che l’idea stessa vincesse grazie al mio sforzo, questo era un po’ troppo. Fin da ora le dico che ho risolto la difficoltà con lo stesso procedimento sentimentale con cui ho risolto l’altra; ma l’avverto anche che, come è avvenuto per l’altra, l’ho risolta poi con la logica, automaticamente, quando sono arrivato allo stadio pienamente cosciente della mia anarchia. Poi vedrà… All’epoca di cui le sto raccontando, mi sono tirato d’impiccio con una o due frasi accomodanti. “Io faccio il mio dovere verso il futuro, che il futuro faccia il suo dovere verso di me”. Questo pensavo, o qualcosa di simile. Ho esposto questa conclusione, anzi, queste conclusioni, ai miei compagni; tutti loro hanno convenuto con me sul fatto che bisognava andare avanti e fare tutto per la società libera. È vero che qualcuno, fra i più intelligenti, è rimasto un po’ turbato da quanto ho detto, non perché non condividesse la mia prospettiva, ma perché non aveva mai visto le cose così chiaramente, né le difficoltà che la situazione comportava. Ma alla fine sono stati tutti d’accordo: saremmo tutti andati a lavorare per la grande rivoluzione sociale, per la società libera, che il futuro ci giustificasse o no! Abbiamo formato un gruppo, fra gente fidata, e abbiamo incominciato una grande propaganda — grande, è chiaro, nei limiti delle nostre possibilità. Durante un buon lasso di tempo, in mezzo a difficoltà, complicazioni e a volte persecuzioni, abbiamo lavorato per l’ideale anarchico». Il banchiere, arrivato a questo punto, fece una pausa un po’ più lunga. Non accese il sigaro, che si era di nuovo spento. Poi, all’improvviso, abbozzò un sorriso e, con l’aria di chi sta per arrivare al punto cruciale, mi guardò con maggior insistenza e proseguì, schiarendosi la voce e accentuando maggiormente le parole. «A questo punto — disse lui — si è presentato un nuovo problema. “A questo punto” è un modo di dire. Voglio dire che, dopo qualche mese di questa propaganda, ho iniziato a valutare una nuova complicazione; e questa era la più seria di tutte, era seria per davvero… Si ricorda, no?, del fatto in base al quale io, mediante un ragionamento rigoroso, avevo stabilito quale dovesse essere il modo di procedere degli anarchici. Un modo o dei modi qualsiasi attraverso i quali si contribuisse a distruggere le finzioni sociali senza, al tempo stesso, ostacolare la creazione della libertà futura; senza quindi limitare minimamente la già poca libertà degli attuali oppressi dalle finzioni sociali; un modo di procedere che possibilmente gettasse le basi della libertà futura. Bene: una volta stabilito questo criterio, non ho mai smesso di tenerlo presente. Ora, al momento della propaganda di cui le sto parlando, ho scoperto una cosa. Nel gruppo di propaganda — non eravamo molti, una quarantina di persone, se non sbaglio — accadeva questo: si produceva tirannia». «Si produceva tirannia? E come?» «Nel modo seguente: qualcuno comandava sugli altri e ci portava dove voleva; qualcun altro si imponeva e ci obbligava a essere quello che più piaceva a lui; altri ancora trascinavano i compagni dove volevano, con imbrogli e artifici vari. Non dico che si comportassero così in situazioni gravi: non c’erano situazioni gravi nell’attività che svolgevamo. Ma il fatto è che questo avveniva sempre e invariabilmente, e non solo durante il lavoro di propaganda, ma anche al di fuori, nelle normali circostanze della vita. Qualcuno andava impercettibilmente verso le posizioni di comando, altri impercettibilmente verso il ruolo di subordinati. Qualcuno era capo per imposizione, qualcun altro per imbroglio. Ciò era evidente nei casi più banali. Per esempio: due ragazzi camminavano insieme per una qualsiasi strada; vi arrivavano in fondo: uno doveva andare a destra e l’altro a sinistra; ognuno di loro aveva convenienza ad andare dalla sua parte. Ma quello che andava a sinistra diceva all’altro: “Vieni con me, da questa parte”; l’altro rispondeva, ed era vero, “Senti, non posso: devo andare di là” per questa o quella ragione. Alla fine, contro la sua volontà e la sua convenienza, seguiva l’altro prendendo a sinistra. Questo si verificava una volta per persuasione, un’altra per semplice insistenza, una terza volta per un qualsiasi altro motivo… Voglio dire, non era mai per una ragione logica; c’era sempre in questa imposizione e in questa subordinazione un che di spontaneo, di istintivo. E come in questo semplice caso, così in tutti gli altri, da quelli di minore a quelli di maggior importanza… Ha capito il problema? » «Sì. Ma cosa diavolo c’è di strano in questo? È quanto di più naturale si possa immaginare!» «Sarà. Ci arriveremo fra poco. Quello che le chiedo di notare è che si trattava dell’esatto contrario della dottrina anarchica. E badi che questo si verificava in un piccolo gruppo, senza influenza né importanza, cui non era affidata la soluzione di alcun problema grave o la decisione su alcun argomento importante; in un gruppo di persone che si erano unite soprattutto per fare quanto era in loro potere per la causa dell’anarchia — cioè per combattere, nei limiti del possibile, le finzioni sociali, e per creare, nei limiti del possibile, la futura libertà. Ha capito bene questi due punti?» «Sì». «Consideri bene ciò che questo rappresenta: un piccolo gruppo di gente sincera (le garantisco che era sincera!), consolidato e unito espressamente per lavorare alla causa della libertà, aveva ottenuto, dopo qualche mese, una sola cosa positiva e concreta: la creazione, al suo interno, della tirannia. E guardi un po’ che tirannia: non era la tirannia derivata dall’ azione delle finzioni sociali che, seppur deprecabile, sarebbe stata comprensibile, fino a un certo punto; ma meno in noi, che combattevamo tali finzioni, che non in altri (alla fin fine, vivevamo in una società basata su queste finzioni, e non era solo colpa nostra se non riuscivamo a sfuggire del tutto al loro raggio d’azione). Ma non era questo il problema. Coloro che comandavano sugli altri, o che li portavano dove volevano, non lo facevano per la brama del denaro, o della posizione sociale, o di qualsiasi autorità di natura fittizia che potessero arrogarsi; lo facevano per una ragione qualsiasi al di fuori delle finzioni della società. Questa tirannia, cioè, relativamente a tali finzioni, era una tirannia nuova. Ed era esercitata nei confronti di gente già oppressa dalle finzioni sociali. Era, per di più, una tirannia esercitata fra di loro da parte di persone la cui intenzione sincera era quella di distruggere la tirannia e di creare la libertà. Adesso poniamo lo stesso caso in un gruppo molto più ampio, molto più influente, che affronti già questioni importanti e decisioni di portata fondamentale. Immagini questo gruppo intento, come il nostro, a indirizzare i suoi sforzi verso la formazione di una società libera. Mi dica allora se attraverso questo carico di tirannie incrociate lei intravvede la possibilità di una società libera o di un’umanità degna di questo nome». «Già, tutto questo è molto curioso». «È curioso, vero? E badi che ci sono alcuni aspetti secondari, anch’essi molto curiosi. Per esempio: la tirannia dell’aiuto». «La che cosa?» «La tirannia dell’aiuto. Fra di noi c’erano alcuni che invece di comandare sugli altri, invece di imporsi agli altri, li aiutavano anzi con tutte le loro forze. Sembra il contrario, non è vero? Ma guardi bene di cosa si trattava, in realtà. Era proprio la nuova tirannia. Era proprio come andare contro i principi anarchici». «Questa è buona! E perché?» «Aiutare qualcuno, amico mio, vuol dire prendere qualcuno per incapace; se questo qualcuno non è incapace, significa farlo tale, supporlo tale; e cioè, nel primo caso, tirannia, nel secondo disprezzo. In un caso si distrugge la libertà altrui; nell’altro si parte, perlomeno inconsciamente, dal principio che gli altri sono spregevoli e indegni o incapaci di libertà. Torniamo al nostro caso. Lei vede bene che questo fatto era gravissimo. Che lavorassimo per la società futura senza aspettarci che essa ci ringraziasse, o rischiando addirittura che tale società non arrivasse mai, tutto questo andava bene. Ma era davvero troppo che stessimo a lavorare per un futuro di libertà e che non facessimo altro, di positivo, che creare tirannia, ma una tirannia nuova, esercitata da noi, gli oppressi, gli uni sugli altri. Ora, questo non poteva essere. Mi sono messo a riflettere. Doveva esserci un errore, una deviazione qualsiasi. Le nostre intuizioni erano buone; le nostre dottrine sembravano sicure; erano forse sbagliati i nostri modi d’agire? Certo, che lo erano. Ma dove diavolo stava l’errore? Ho iniziato a pensare; stavo diventando matto. Un giorno, improvvisamente, come sempre succede in queste cose, ho trovato la soluzione. È stato il gran giorno delle mie teorie anarchiche; il giorno in cui ho scoperto, per così dire, la tecnica dell’anarchia». Mi guardò per un attimo senza vedermi. Poi continuò, sullo stesso tono di voce. «Ho pensato questo: abbiamo una tirannia nuova, una tirannia che non è derivata dalle finzioni della società. Da dove, allora, è derivata? Dalle qualità naturali? Se è così, addio società libera! Se una società in cui agiscono solo le qualità naturali degli uomini — quelle qualità con cui essi nascono, che essi devono solo alla natura e sulle quali non abbiamo alcun potere —, se una società in cui agiscono solo queste qualità è un cumulo di soprusi, chi alzerà il mignolo per contribuire all’ avvento di questa società? Tirannia per tirannia, che resti quella che c’è; almeno è quella cui siamo abituati, e per questo, fatalmente, la sentiamo meno di quanto sentiremmo una tirannia nuova, terribile come tutte le cose tiranniche che vengono direttamente dalla natura. Contro di essa non ci sarebbe rivolta possibile, così come non esiste rivolta possibile contro il fatto di dover morire, o contro l’esser bassi quando si preferirebbe essere nati alti. Proprio per questo le ho già provato che, se per qualsiasi ragione non è realizzabile la società anarchica, deve esistere allora, in quanto più naturale di qualsiasi altra eccetto quella, la società borghese. Ma questa tirannia, che nasceva così dentro di noi, era realmente derivata dalle qualità naturali? Ora, cosa sono le qualità naturali? Sono il grado di intelligenza, di immaginazione, di volontà, eccetera, con cui ognuno nasce — questo nel campo mentale, è chiaro, perché le qualità naturali del corpo non sono casuali. Ora, un individuo che comanda un altro per una ragione diversa da quelle derivate dalle finzioni della società, lo fa necessariamente perché gli è superiore in qualcuna delle qualità naturali. Lo domina con l’uso di tali qualità. Ma c’è una cosa da verificare: questo impiego delle qualità naturali sarà legittimo? Cioè, sarà naturale? Ora, qual è il naturale impiego delle nostre qualità naturali? Servire ai fini naturali della nostra personalità. Ma dominare qualcuno è un fine naturale della nostra personalità? Può esserlo; esiste un caso in cui può esserlo: quando questo qualcuno si trova a ricoprire, rispetto a noi, il ruolo di nemico. Per l’anarchico, è chiaro, tale ruolo è occupato da qualsiasi rappresentante delle finzioni della società e della sua tirannia; da nessun altro, perché tutti gli altri uomini sono uomini come lui e compagni naturali. Ora, vede, il caso della tirannia che stavamo creando fra di noi non era questo; la tirannia che stavamo creando era esercitata su uomini come noi, compagni naturali, doppiamente compagni, addirittura, perché lo erano anche per la comunione nello stesso ideale. Conclusione: questa nostra tirannia, se non era derivata dalle finzioni della società, non era derivata neanche dalle qualità naturali; era derivata da un’applicazione errata, da una perversione delle qualità naturali. E questa perversione, da dove proveniva? Le risposte potevano essere due: o l’uomo è naturalmente cattivo, e quindi tutte le qualità naturali sono naturalmente perverse; o la perversione deriva dalla lunga permanenza dell’umanità in un’atmosfera di finzioni sociali, tutte quante generatrici di tirannia e tendenti quindi a rendere già istintivamente tirannico l’uso più naturale delle qualità più naturali. Ora, di queste due ipotesi, qual era quella giusta? Era impossibile determinarlo in modo soddisfacente, cioè rigorosamente logico o scientifico. Il ragionamento non ha niente a che vedere con questo problema, che è di ordine storico, o scientifico, e dipende dalla conoscenza di fatti. Da parte sua, nemmeno la scienza ci aiuta, perché, per quanto torniamo indietro nella storia, troviamo l’uomo sempre sottomesso all’uno o all’altro sistema di tirannia sociale, e quindi sempre in uno stato che non ci permette di verificare come sia l’uomo quando vive in condizioni genuine e interamente naturali. Non essendoci una risposta certa, dobbiamo propendere per la soluzione più probabile; e la maggior probabilità è nella seconda ipotesi. È più naturale supporre che la lunghissima permanenza dell’umanità tra finzioni sociali generatrici di tirannia faccia sì che ogni uomo (anche chi non abbia l’intenzione cosciente di tiranneggiare) nasca con qualità naturali già deviate verso una tirannia spontanea, che non supporre che delle qualità naturali possano essere naturalmente pervertite, cosa che di certo rappresenta una contraddizione. Per questo motivo, chi ci pensa si decide per la seconda ipotesi, come ho fatto io. Dunque, una cosa è evidente: nel presente stato sociale non è possibile che un gruppo di uomini, per quanto benintenzionati, per quanto intenti a combattere le finzioni della società e a conquistare la libertà, lavorino uniti senza creare spontaneamente fra di loro una tirannia, senza creare fra di loro una tirannia nuova, supplementare a quella delle finzioni sociali, senza distruggere nella pratica quanto vogliono in teoria, senza involontariamente ostacolare al massimo lo stesso progetto che vogliono promuovere. Cosa si deve fare? È molto semplice: lavorare tutti per lo stesso fine, ma separati». «Separati?» «Sì, non ha seguito il mio discorso?» «Sì, certo». «E non trova logica, non trova fatale questa conclusione? » «Sì che la trovo… Quello che non capisco bene è come questo…» «Adesso glielo spiego. Ho detto: lavoriamo tutti per lo stesso fine, ma separati. Lavorando tutti per lo stesso fine anarchico, ognuno contribuisce con il suo sforzo alla distruzione delle finzioni della società (questo è il nostro obiettivo) e alla creazione della società libera del futuro; e lavorando separati nessuno può in alcun modo creare una nuova tirannia, perché nessuno ha la possibilità di agire sull’ altro, e non può quindi né, dominandolo, usurpare la sua libertà né, aiutandolo, limitarla. Lavorando così separati e per lo stesso fine anarchico abbiamo due vantaggi: quello dello sforzo congiunto e quello della non creazione di una nuova tirannia. Proseguiamo uniti perché lo siamo moralmente e lavoriamo allo stesso modo per lo stesso fine; continuiamo a essere anarchici, perché ognuno lavora per la società libera; ma la smettiamo di essere traditori, volontari o involontari, nei confronti della nostra causa; cessiamo anche di poterlo essere, perché ci collochiamo, grazie al lavoro anarchico isolato, fuori dell’influenza deleteria delle finzioni sociali, del loro riflesso ereditario sulle qualità che la natura ci ha dato. È chiaro che tutta questa tattica si applica a quello che io ho chiamato il periodo di preparazione della rivoluzione sociale. Una volta cadute le difese borghesi, e ridotta tutta la società allo stato di accettazione delle dottrine anarchiche, mancando solo la rivoluzione sociale vera e propria, allora, per il colpo finale, non può continuare l’azione separata. Ma a questo punto la società libera è già virtualmente esistente; le cose vanno già in un altro modo. La tattica cui faccio allusione si riferisce solo all’azione anarchica nel seno della società borghese, come nel caso del gruppo al quale io appartenevo. Era questo — finalmente! — il vero processo anarchico. Insieme non valevamo niente, e per più ci tiranneggiavamo e ci ostacolavamo gli uni con gli altri, intralciando lo sviluppo delle nostre teorie. Separati, avremmo ottenuto ugualmente poco, ma almeno non avremmo ostacolato la libertà, non avremmo creato una nuova tirannia; quel che avessimo raggiunto, per poco che fosse, sarebbe stato effettivamente raggiunto, senza perdite né svantaggi. E sempre più, lavorando così separati, avremmo imparato ad aver fiducia in noi stessi, a non appoggiarci gli uni agli altri, a renderci già più liberi, a prepararci, sia personalmente che nei confronti degli altri mediante il nostro esempio, per il futuro. Ero raggiante di fronte a questa scoperta. Sono andato subito a esporla ai miei compagni. È stata una delle poche volte in cui mi sono sentito stupido nel corso della mia vita. Si immagini che ero tanto preso dalla mia scoperta da aspettarmi che loro fossero d’accordo!» «E invece no, è chiaro…» «Hanno protestato, amico mio, hanno protestato tutti! Chi più chi meno, ma tutti hanno protestato! Non era così! Non era possibile! Ma nessuno diceva quel che era o quel che doveva essere. Ho parlato e parlato, e in risposta alle mie argomentazioni non ho ottenuto altro che frasi, spazzatura, banalità come quelle che i ministri dicono alle camere quando non hanno alcuna risposta… È stato allora che ho capito con che imbecilli e con che codardi mi ero messo! Si erano smascherati. Quella combriccola era nata per essere schiava. Volevano essere anarchici sulle spalle degli altri. Volevano la libertà, a patto che fossero gli altri a conquistargliela, a patto che fosse data loro così come da un re viene conferita un’onorificenza. Quasi tutti loro sono così, quei grandi lacchè!» «E lei si è arrabbiato?» «Se mi sono arrabbiato! Mi sono infuriato! Mi sono messo a scalciare. Ho fatto fuoco e fiamme. Sono quasi venuto alle mani con due o tre di loro. E ho finito per andarmene. Mi sono isolato. Mi è venuta una tale nausea nei confronti di tutto quel branco di pecoroni, che non se l’immagina nemmeno! Ho quasi rinnegato l’anarchia. Ho quasi deciso di non interessarmi più di tutta la faccenda. Ma, dopo qualche giorno, sono tornato in me. Ho pensato che l’ideale anarchico era al di sopra di simili piccolezze. Loro non volevano essere anarchici? Lo sarei stato io. Loro volevano solo giocare a fare i libertari? Non ero disponibile per un simile gioco. Loro non avevano la forza di combattere se non appoggiandosi gli uni agli altri e creando fra di loro un nuovo simulacro della tirannia che sostenevano di voler combattere? E allora che lo facessero, quegli idioti, se non servivano ad altro. Io non sarei diventato borghese per così poco. Era stabilito che, nella vera anarchia, ognuno dovesse con le proprie forze creare libertà e combattere le finzioni sociali. E allora, con le mie forze, avrei creato libertà e combattuto queste finzioni. Nessuno voleva seguire con me il vero cammino dell’anarchia? Lo avrei seguito io. Lo avrei fatto: da solo, con le mie risorse, con la mia fede, isolato persino dall’ appoggio mentale di quelli che erano stati i miei compagni, contro tutte le finzioni sociali. Non dico che fosse un bel gesto, né un gesto eroico. È stato solo un gesto naturale. Se la via doveva essere seguita da ognuno separatamente, non avevo bisogno di nessun altro per seguirla. Bastava il mio ideale. È stato basandomi su questi principi e su queste circostanze che ho deciso, io solo, di combattere le finzioni della società». Interruppe un attimo il suo discorso, che si era fatto caloroso e fluente. Lo riprese poco dopo, con la voce già più pacata. «È uno stato di guerra, ho pensato, fra me e le finzioni sociali. Molto bene. Che posso fare io contro tali finzioni? Lavoro da solo per non creare, in nessun modo, alcuna forma di tirannia. Come posso lavorare da solo alla preparazione della rivoluzione sociale, alla preparazione dell’umanità in vista della società libera? Devo scegliere uno dei due procedimenti possibili; nel caso, è chiaro, che non possa servirmi di entrambi. I due procedimenti sono l’azione indiretta, cioè la propaganda, e l’azione diretta, di qualsiasi tipo. Ho pensato in primo luogo all’azione indiretta, cioè alla propaganda. Che propaganda avrei potuto fare io, da solo? A parte quella propaganda che si fa sempre quando si chiacchiera, con l’uno o con l’altro, a casaccio e servendosi di tutti gli spunti, ciò che volevo sapere era se l’azione indiretta era una via su cui potessi incamminare la mia attività di anarchico in modo energico; in modo, cioè, da produrre risultati di qualche rilievo. Ho constatato subito che non poteva essere così. Non sono né un oratore né uno scrittore. Voglio dire: sono capace di parlare in pubblico, se necessario, e sono capace di scrivere un articolo per un giornale; ma quello che volevo verificare era se la mia conformazione naturale indicava che, specializzandomi nell’azione indiretta, di uno solo o di entrambi i tipi, avrei potuto ottenere risultati più positivi per l’idea anarchica che non indirizzando i miei sforzi in qualsiasi altro senso. Ora, l’azione è sempre più fruttuosa della propaganda; tranne nel caso di quegli individui la cui indole li destina essenzialmente al ruolo di propagandisti — i grandi oratori, capaci di elettrizzare e di trascinare le masse, o i grandi scrittori, capaci di affascinare e di convincere con i loro libri. Non mi sembra di essere molto vanitoso ma, se lo sono, la mia vanità non mi permette, perlomeno, di insuperbirmi per qualità che non posseggo. E, come le ho detto, non è mai successo nulla che mi permettesse di considerarmi un oratore o uno scrittore. Per questo ho abbandonato l’idea dell’azione indiretta come via da seguire nella mia attività di anarchico. Per esclusione ero costretto a scegliere l’azione diretta, cioè lo sforzo applicato alla pratica della vita, alla vita reale. Non era l’intelligenza, ma l’azione. Molto bene. Così sarebbe stato. Dovevo quindi applicare alla vita pratica il procedimento fondamentale dell’azione anarchica, che avevo già chiarito: combattere le finzioni della società senza creare una nuova tirannia, e creando già, nel caso fosse possibile, le basi della libertà futura. Ma come diavolo si fa tutto questo, nella pratica? Ora, cosa significa combattere nella pratica? Combattere nella pratica significa la guerra, una guerra, perlomeno. Come si fa la guerra alle finzioni sociali? Prima di tutto, come si fa la guerra? Come è che si vince il nemico, in qualsiasi guerra? In uno dei due modi: o uccidendolo, cioè distruggendolo, o imprigionandolo, cioè soggiogandolo, riducendolo all’ inazione. Di distruggere le finzioni sociali non ero in grado; solo la rivoluzione sociale poteva farlo. Le finzioni della società potevano essere attaccate, traballanti, a un filo; ma distrutte lo sarebbero state solo con la venuta della società libera e la reale caduta della società borghese. Il massimo che avrei potuto fare in questo senso era distruggere — distruggere nel senso fisico di uccidere — qualche membro delle classi rappresentative della società borghese. Ho studiato la cosa, e mi sono accorto che era una sciocchezza. Provi a immaginarmi intento ad ammazzare uno, due, una dozzina di rappresentanti della tirannia delle finzioni sociali. Con che risultato? Forse che tali finzioni si sarebbero indebolite? No. Le finzioni della società non sono come una situazione politica, che può dipendere da un ristretto numero di uomini, a volte da un uomo solo. Quello che c’è di ingiusto nelle finzioni sociali sono le finzioni stesse, nel loro insieme, e non gli individui che le rappresentano se non, appunto, in quanto loro rappresentanti. E poi, un attentato di ordine sociale provoca sempre una reazione; non solo tutto resta come prima, ma il più delle volte peggiora. Supponga per di più che, come è naturale, dopo un attentato io fossi ricercato; ricercato e liquidato in un modo o nell’altro. E supponga anche che io avessi eliminato una dozzina di capitalisti. Che cosa avrebbe prodotto tutto questo, in definitiva? Con la mia liquidazione, magari non per morte, ma per semplice prigione o esilio, la causa anarchica avrebbe perso un elemento di lotta: e i dodici capitalisti soppressi non sarebbero stati dodici elementi che la società borghese perdeva, perché i componenti di tale società non sono elementi di lotta, bensì elementi puramente passivi, dato che la “lotta” anarchica deve rivolgersi non contro i membri della società borghese, ma contro l’insieme di finzioni sociali in cui questa società si colloca stabilmente. Ora, le finzioni sociali non sono persone, contro le quali si possa sparare… Capisce? Non era come il soldato di un esercito che uccide dodici soldati dell’esercito nemico; era come un soldato che uccide dodici civili della nazione dell’altro esercito. Voleva dire uccidere senza ragione, perché non si eliminava nessun combattente. Non potevo, quindi, pensare di distruggere, né in toto né in minima parte, le finzioni sociali. Dovevo sconfiggerle soggiogandole, riducendole all’ inazione». Puntò verso di me, all’ improvviso, l’indice della mano destra. «È quello che ho fatto!» Si ricompose, e continuò. «Ho cercato di considerare quale fosse la prima, la più importante delle finzioni sociali. Questa, prima di qualunque altra, dovevo tentare di soggiogare, di ridurre all’inazione. La più importante, perlomeno nella nostra epoca, è il denaro. Come soggiogare il denaro, o, più precisamente, la forza e la tirannia del denaro? Liberandomi dalla sua influenza, dalla sua forza, rendendomi superiore, quindi, alla sua influenza, neutralizzando la sua azione su di me. Su di me, capisce? Perché ero io a combattere: se si fosse trattato di ridurlo all’inazione rispetto a tutti, non sarebbe stato più soggiogarlo, bensì distruggerlo, perché avrebbe significato farla finita del tutto con la finzione denaro. Ora, le ho già provato che qualsiasi finzione sociale può essere “distrutta” solo dalla rivoluzione sociale, trascinata con le altre nella caduta della società borghese. Come potevo rendermi superiore alla forza del denaro dalla sfera della sua influenza, cioè dalla civiltà; andare in un campo a mangiare radici e? Il modo più semplice era allontanarmi a bere acqua dalle fonti; girare nudo e vivere come un animale. Ma questo, e non avrei avuto nessuna difficoltà a farlo, non significava combattere una finzione sociale; non era nemmeno combattere: era fuggire. Dal punto di vista dei fatti, chi si sottrae a una lotta non è sconfitto nella lotta stessa. Ma moralmente lo è, perché non si è battuto. Il metodo doveva essere un altro — un metodo di lotta e non di fuga. Come soggiogare il denaro, combattendolo? Come sottrarmi alla sua influenza e alla sua tirannia, senza evitare lo scontro con esso? Il procedimento era uno solo: guadagnarlo, guadagnarlo in quantità sufficiente da non sentirne il bisogno; e quanto più ne avessi guadagnato, tanto più sarei stato libero da tale bisogno. È stato quando ho visto questo in modo chiaro, con tutta la forza della mia convinzione di anarchico e con tutta la mia logica di uomo lucido, che sono entrato nella fase attuale — quella commerciale e bancaria, amico mio — della mia anarchia». Calmò, per un attimo, l’ardore e l’entusiasmo per quanto stava dicendo. Poi, sempre con un certo fervore, continuò il suo racconto. «Ora, si ricorda di quelle due difficoltà logiche che erano sorte, come le ho raccontato, all’inizio della mia carriera di anarchico cosciente? E si ricorda che le ho detto di averle risolte a quell’epoca artificialmente, con il sentimento e non su base logica? Lei stesso ha notato, e molto bene, che non le avevo risolte logicamente». «Certo, ricordo…» «E si ricorda di quando le ho detto che più tardi, quando finalmente ho capito la natura del vero processo anarchico, le ho risolte una buona volta a rigor di logica?» «Sì». «Ora consideri come sono state risolte. Le difficoltà erano queste: non è naturale lavorare per una causa, quale che sia, senza una ricompensa naturale, cioè egoistica; e non è naturale che noi diamo il nostro contributo per un fine qualsiasi senza avere la soddisfazione di sapere che questo fine sarà raggiunto. Le due difficoltà erano queste; ora consideri come sono risolte dal metodo anarchico che il mio ragionamento mi ha portato a scoprire come l’unico valido. Tale metodo dà come risultato che io mi arricchisca; dunque: ricompensa egoistica. Il metodo cerca il conseguimento della libertà; ora, io, rendendomi superiore alla forza del denaro, cioè liberandomene, riesco a conquistare la libertà. Ottengo libertà solo per me, certo; ma il fatto è che, come già le ho provato, la libertà per tutti può venire solo dalla distruzione delle finzioni sociali da parte della rivoluzione sociale, e io, da solo, non posso fare la rivoluzione sociale. Il fatto concreto è questo: cerco libertà, ottengo libertà; ottengo la libertà che posso, perché, è chiaro, non posso ottenere quella che non posso. E badi: metta da parte il ragionamento che determina che questo metodo anarchico è l’unico vero; il fatto che esso risolva automaticamente le difficoltà logiche che si possono opporre a qualsiasi procedimento anarchico, prova ancora di più che è quello vero. È questo, dunque, il metodo che ho seguito. Ho dedicato tutte le mie energie all’impresa di soggiogare la finzione denaro, arricchendomi. Ci sono riuscito. Ha richiesto un po’ di tempo, perché la lotta è stata dura, ma ci sono riuscito. Evito di raccontarle la mia vita commerciale e bancaria. Potrebbe essere interessante, soprattutto in certi punti, ma non c’entra più con l’argomento. Ho lavorato, ho lottato, ho guadagnato soldi; ho lavorato di più, ho lottato di più, ho guadagnato più soldi; alla fine ho accumulato molto denaro. Non mi son fatto scrupoli — glielo confesso, amico mio, non mi son fatto scrupoli; ho impiegato tutti i mezzi possibili: il monopolio, il cavillo giuridico, anche la concorrenza sleale. E come?! Combattevo le finzioni sociali, immorali e antinaturali per eccellenza, e dovevo stare attento ai metodi?! Lavoravo per la libertà, e dovevo stare attento alle armi con cui combattevo la tirannia?! L’anarchico stupido, che tira bombe e spara, lo sa bene che ammazza, e sa bene che le sue dottrine non contemplano la pena di morte. Si batte contro l’immoralità con un delitto, perché trova che questa immoralità valga bene il crimine che la distrugge. È stupido, lui, relativamente al metodo; perché, come già le ho dimostrato, questo modo di agire è sbagliato e controproducente quale procedimento anarchico; ma, quanto alla morale del procedimento, è intelligente. Ora, il mio modo d’agire era sicuro, e mi sono servito legittimamente, come anarchico, di tutti i mezzi per arricchirmi. Oggi ho realizzato il mio sogno relativo di anarchico pratico e lucido. Sono libero. Faccio quel che voglio, nei limiti, è chiaro, di quanto è possibile fare. La mia parola d’ordine di anarchico era “libertà”; bene, ho la libertà, dunque; quella che, per il momento, nella nostra società imperfetta, è possibile avere. Volevo combattere le forze sociali; le ho combattute e, quel che più conta, le ho vinte». «Un attimo! Un attimo! — dissi io — Tutto questo va bene, ma c’è una cosa che lei non ha visto. Le condizioni del suo modo d’agire erano, come ha dimostrato, non solo creare libertà, ma anche non creare tirannia. Ora, lei ha creato tirannia. Lei come monopolista, come banchiere, come finanziere senza scrupoli — mi scusi, ma l’ha detto lei —, ha creato tirannia. Lei ha creato tirannia quanto qualsiasi altro rappresentante delle finzioni sociali, che lei sostiene di combattere». «No, vecchio mio. Lei si sbaglia. Non ho creato nessuna tirannia. La tirannia che può essere derivata dalla mia azione di lotta contro le finzioni sociali è una tirannia che non parte da me, e che quindi non ho creato io; è insita nelle finzioni sociali; non l’ho aggiunta io ad esse. Questa tirannia è la tirannia propria delle finzioni sociali, e io non potevo, né me lo sono mai proposto, distruggere le finzioni sociali. Per la centesima volta glielo ripeto: solo la rivoluzione sociale può distruggere le finzioni sociali; prima di questo, l’azione anarchica perfetta, come la mia, può solo soggiogare le finzioni sociali, soggiogarle in relazione al singolo anarchico che mette in atto questo processo, perché tale metodo non consente un maggiore assoggettamento di queste finzioni. Non si tratta di non creare tirannia: ma di non creare tirannia nuova, tirannia là dove non c’era. Gli anarchici, lavorando insieme, influenzandosi gli uni con gli altri come le ho detto, creano fra di loro, al di fuori delle finzioni sociali, una tirannia; questa è una nuova tirannia, ma non l’ho creata io. Non avrei potuto proprio, per le condizioni stesse del mio metodo. No, amico mio; io ho creato solo libertà. Ho liberato una persona. Ho liberato me. Il mio metodo, che è, come le ho provato, l’unico veramente anarchico, non mi ha permesso di liberarne di più. Quelli che ho potuto liberare, li ho liberati». «Va bene, sono d’accordo. Ma guardi che, con un discorso come questo, si è quasi portati a credere che nessun rappresentante delle finzioni sociali eserciti tirannia». «E non l’esercita. La tirannia è delle finzioni e non degli uomini che le incarnano; questi, per così dire, sono i mezzi di cui le finzioni si servono per tiranneggiare, come il coltello è il mezzo di cui si può servire l’assassino. E lei, certo, non pensa che abolendo i coltelli si possano abolire gli assassini. Guardi: distrugga tutti i capitalisti del mondo, ma senza distruggere il capitale. Il giorno dopo il capitale, già nelle mani di altre persone, continuerà tramite loro la sua tirannia. Distrugga non i capitalisti ma il capitale; quanti capitalisti restano? Vede?» «Sì, ha ragione». «Ragazzo mio, il massimo, ma proprio il massimo di cui lei mi può accusare è di avere aumentato un poco — molto, molto poco — la tirannia delle finzioni sociali. Il discorso è assurdo perché, come le ho già detto, la tirannia che io non dovevo creare, e non ho creato, è un’altra. Ma c’è ancora un punto che fa acqua: secondo lo stesso ragionamento, lei può accusare un generale, che combatte per il suo paese, di causare ad esso il danno del numero di uomini del suo stesso esercito che deve sacrificare per vincere. Chi va in guerra ne dà e ne prende. Si raggiunga l’obiettivo principale, ché il resto…» «Benissimo. Ma consideri un’altra cosa. Il vero anarchico vuole la libertà non solo per sé, ma anche per gli altri. Mi pare che voglia la libertà per l’umanità intera». «Indubbiamente. Ma le ho già detto che, secondo il metodo che ho scoperto essere l’unico modo d’agire anarchico, ognuno deve liberarsi da sé. Io mi sono liberato; ho fatto il mio dovere contemporaneamente nei miei confronti e nei confronti della libertà. Perché gli altri, i miei compagni, non hanno fatto lo stesso? Io non gliel’ho impedito. Questo sarebbe stato il crimine: se li avessi ostacolati. Ma non li ho nemmeno ostacolati nascondendo loro il vero modo d’agire anarchico; non appena l’ho scoperto, l’ho esposto chiaramente a tutti. Questo stesso modo di agire mi impediva di fare di più. Che potevo fare? Forzarli a seguire la mia via? Anche se avessi potuto non l’avrei fatto, perché avrebbe significato togliere loro la libertà, e questo andava contro i miei principi anarchici. Aiutarli? Anche questa soluzione era improponibile, per la stessa ragione. Non ho mai aiutato né aiuto nessuno, perché questo, che vuol dire diminuire la libertà altrui, va anche contro i miei principi. Lei mi sta rimproverando il fatto che io non sono altro che una persona sola. Perché mi rimprovera l’adempimento, nei limiti del possibile, del mio dovere di libertà? Perché non rimprovera prima loro, per non aver compiuto il loro dovere?» «Certo. Ma quegli uomini non hanno fatto quello che ha fatto lei naturalmente, perché erano meno intelligenti di lei, o dotati di minore forza di volontà, o…» «Ah, amico mio: queste sono le disuguaglianze naturali, non quelle sociali. Con queste, l’anarchia non ha niente a che vedere. Il grado di intelligenza o di volontà di un individuo riguardano lui e la natura; le finzioni sociali non c’entrano per niente. Alcune qualità naturali, presumibilmente, sono state pervertite dalla lunga permanenza dell’umanità fra le finzioni sociali, come già le ho detto; ma la perversione non sta nel grado della qualità, che è dato in modo assoluto e definitivo dalla natura, bensì nella sua applicazione. Ora, una questione di stupidità o di mancanza di volontà non ha niente a che vedere con l’applicazione di tali qualità, ma solo con il loro grado. Perciò le dico: queste, ormai, sono differenze naturali e definitive, sulle quali nessuno ha alcun potere; né esistono rivolgimenti sociali che le modifichino, così come non si può far diventare me alto o lei basso. A meno che… a meno che, in un caso di questo tipo, la perversione ereditaria delle qualità naturali non si spinga così avanti da attingere al fondo stesso del temperamento… Sì, che un individuo nasca per essere schiavo, naturalmente schiavo, e quindi incapace di qualsiasi sforzo per liberarsi. Ma in questo caso… in questo caso, cosa ha a che vedere un simile individuo con la società libera, o con la libertà? Se un uomo è nato per essere schiavo, la libertà, essendo contraria alla sua indole, sarà per lui una tirannia». Una breve pausa. Improvvisamente cominciai a ridere forte. «È vero — dissi — lei è anarchico. In ogni caso, fa venir da ridere, anche dopo averla ascoltata, paragonare lei con gli anarchici che sono in giro…» «Amico mio, gliel’ho detto, gliel’ho provato e ora glielo ripeto. La differenza è tutta qui: loro sono anarchici solo teorici, io sono teorico e pratico; loro sono anarchici mistici e io scientifico; loro sono anarchici che si piegano, io sono un anarchico che combatte e si libera… In una parola: loro sono pseudoanarchici; io, invece, sono anarchico». E ci alzammo da tavola. Lisbona, gennaio 1922
La struttura del racconto é imperniata sul colloquio tra due interlocutori in cui il secondo tende a scomparire dalla trama se non per pochi interventi da “spalla”,senza contraddittorio apparente;infatti pare una sceneggiatura perfetta per una pièce teatrale o per una performance di un attore che non teme il confronto con il pubblico. Appare chiaro in prima istanza che é un racconto che potrebbe essere scritto da un filosofo della scuola dei Sofisti, la cui logica apparente é quella di dimostrare che si può partire difendendo una posizione e tramite una logica stringente arrivare alla fine difendendo le posizioni opposte. La Sofistica é un movimento culturale e filosofico sorto in Grecia nei secc. V-IV a.C., che, rifiutando ogni ricerca metafisica, instaurò il principio della soggettività del sapere identificando nella convenienza pratica l’unico criterio della verità di un’affermazione, e a tale scopo valorizzando al massimo la retorica, considerata l’unico efficace mezzo di convinzione e persuasione. Attraverso sillogismi e paralogismi che investono il lettore attraverso labirinti logici spietati,in cui ogni passaggio é validato da quello precedente, l’idea del libertarismo anarchico viene completamente svuotata del suo significato per approdare in un esasperato individualismo egoista che rivendica la bontà della scelta fatta come unica risultante possibile. A ben guardare il ragionamento si regge su una catena di presupposti, ciascuno dei quali è appena più estraneo alla verità rispetto a quello che lo precede, definendo una linea logica all’apparenza diritta,ma in realtà che si muove zigzagando. Anche un concetto fondante del discorso come “la realtà naturale”,a cui il banchiere si appella in continuazione per corroborare il suo ragionare, appare non compiutamente focalizzato,rimanendo fuori dal cono di luce logico,opaco, quasi come un apriori kantiano. Ritengo che,visto da questa prospettiva,il discorso sull’anarchia rappresenti per l’autore solo una scusa,un alibi, per mettere in guardia il lettore dall’imprudenza nel percorrere sentieri che attraverso l’uso spregiudicato della retorica e della logica approdino in uno sterile solipsismo egoista, amorale , vanesio e privo di autentica libertà . Questa chiave interpretativa é anche aiutata dalla biografia e dagli interessi culturali preponderanti in Pessoa, dedito quasi ossessivamente non ad elucubrazioni in chiave politico-sociale, ma scaturenti dal corpus della filosofia irrazionale,dall’occultismo, dal misticismo,dall’ ermetismo e dall’ astrologia di cui era profondo cultore. Era nota anche la sua vicinanza all’antroposofia steineriana, alla kabbala ebraica e i suoi contatti con la massoneria di origine anglosassone. Assolutamente lontano quindi da ogni tipo di elaborazione politica, se non come riferimento ad una tiepida partecipazione al conservatorismo antireazionario con simpatie monarchiche. Se vogliamo trovare interlocutori a lui affini possiamo cercare nella galassia degli eruditi mistici di stampo est-europeo come Mircea Eliade oppure il nostro Elemire Zolla. Il suo é stato un costante dialogo e interrogazione con la sua coscienza/e, soliloquio interiore che lo avvicina moltissimo all’esperimento letterario dell’Ulisse di James Joyce. Possiamo dunque asserire,in buona sostanza, che il Banchiere anarchico serve al nostro per demolire il logos greco, la spietatezza della logica su cui si fonda un’umanità rapace e solitaria,perfetta descrizione delle pulsioni dell’uomo occidentale contemporaneo. Ma, se il libro di Pessoa rimanda ad altro, io ne accetto la “provocazione” linguistica e retorica, atteggiamento utile per rintuzzare gli attacchi che da sempre vengono portati all’anarchismo libertario in base allo stilema di irrealizzabilità ed utopia che ne contraddistinguerebbe l’esito.
Il logos del Banchiere anarchico si muove tra i poli delle “finzioni sociali”, forze oscure che minacciano l’uguaglianza e la libertà dell’uomo, e la “realtà naturale” costituita dai caratteri intimi e personali posseduti da ciascuna persona, che ne fanno ciò che si é in termini di unicità ed originalità. Senza rincorrere l’intero itinerario biografico del Banchiere anarchico e le trappole semantiche ivi annidate, così ben caratterizzate dalla scrittura del portoghese, vorrei soffermarmi su due aspetti del discorso che, appena focalizzati con maggior rigore, permettono di comprendere come la retorica e la logica, evidenziando certi aspetti ed occultandone altrettanti, piegano il senso del discorso verso una fine ineluttabile ancorché privo di contraddizioni. Il punto nodale, a mio parere,rimane la non veridicità dell’asserzione secondo cui anche nei gruppi anarchici si ha la produzione di una nuova tirannia, contraddicente quelle che sono le istanze del credo libertario:“Nel gruppo di propaganda —non eravamo molti, una quarantina di persone, se non sbaglio — accadeva questo: si produceva tirannia[…..]: qualcuno comandava sugli altri e ci portava dove voleva; qualcun altro si imponeva e ci obbligava a essere quello che più piaceva a lui; altri ancora trascinavano i compagni dove volevano, con imbrogli e artifici vari. […]. Qualcuno andava impercettibilmente verso le posizioni di comando, altri impercettibilmente verso il ruolo di subordinati. “ Il banchiere,ad uso della sua tesi, confonde la nuova tirannia nei gruppi anarchici con il concetto di Potere,quello sì combattuto sempre e comunque da qualsiasi anarchico che si rispetti. Egli confonde potere con carisma e competenza personale,messe al servizio della causa comune. Sia Illich che Bookchin parlano di questi aspetti tratteggiando le prerogative delle piccole comunità anarchiche fulcro dell’organizzazione sociale libertaria. La prospettiva così designata ,cioè mettere le proprie competenze personali al servizio del gruppo, delinea il secondo aspetto che dolosamente (o incolpevolmente?) il banchiere di Pessoa evita di mettere in luce: nella cosidetta “realtà naturale” vengono considerati solo gli aspetti privati dell’individuo come la forza, l’intelletto,la volontà,la scaltrezza,l’intelligenza , i parametri fisici che sono naturalmente diversi per ciascun uomo. Ma l’uomo,in primis, é soggetto sociale, comunitario,come e in maggior misura di tante altre specie che popolano la terra. Molte discipline lo hanno evidenziato,antropologia,sociologia, zoologia, linguistica, neurofisiologia (a cosa servirebbero altrimenti i neuroni specchio?),teoria della mente e della coscienza (Bateson,Maturana), neuropsicologia(Varela). In psicologia dell’età evolutiva viene sempre rimarcato il lungo periodo di svezzamento di cui abbisogna il cucciolo umano,rispetto alle altre specie,per il farsi di una coscienza marcatamente simbolica (Vygotsky,Piaget).Non si può mai disgiungere l’uomo dall’ambiente in cui cresce e vive, così come non é più tempo di spezzare la sua originaria unità nel pernicioso dualismo mente-corpo, come dimostrato dalle ricerche riguardo la cognizione incarnata in psicologia cognitiva. Privandosi della sua parte sociale, a vantaggio di una fittizia volontà di potenza basata su un’utopica “realtà naturale” , il banchiere pessoiano approda in un territorio mai esplorato in Natura, che sempre media i rapporti intra ed extra specie con quello che definiamo istinto, un territorio dicevo che appare di sconfinata libertà, ma in buona sostanza che lo colloca in una unidimensionalità marcusiana estraniante e distopica. Sotto questo aspetto il banchiere anarchico,lungo l’arco del racconto, si industria alacremente nello spogliarsi delle sue sembianze più genuinamente umane, isolandosi vieppiù dagli antichi compagni, per approdare nella macchina acchiappa denaro che diventa alla fine del racconto, il mezzo che diventa il fine, l’accumulo opposto al donarsi incondizionato agli altri. Nell’anarchia libertaria si sceglie di camminare insieme, si andrà più lenti, ma alla fine si farà più strada e soprattutto sarà anche più gratificante. Rimane da chiedersi la causa che porta tante persone, anche lucidissime, fittizie come in questo racconto ma anche reali,( chi non li ha mai incontrati nella realtà ?) ad avere il disperato bisogno di dimostrare,prima di tutto a loro stessi, la bontà e la moralità delle loro azioni anche se la realtà dice altro. “E chi desidera essere malvagio, vale a dire un uomo che agisce come se tutte le azioni fossero difendibili, dovrebbe almeno avere la bontà di accorgersi quando è riuscito nel suo scopo.“(Stig Dagerman -Il nostro bisogno di consolazione) Rimane solo l’ironia a spiegare quello che non si può. In quanto a Fernando Pessoa appartiene alla genia degli uomini con orizzonti diversi da quello terrestre, come Poe, Baudelaire o Arthur Rimbaud , abitatori delle linee d’ombra, dei dormiveglia, dell’incessante formula dell’infinito, dell’ Io é l’altro. Ma appartiene anche al mondo dei bambini, quando soli,chiusi nella stanzetta di casa, si inventa un amico immaginario con cui giocare,in cui specchiarsi, una fiammella rischiarante un mondo incompreso, un eteronimo in fieri che ti accompagna nel cammino che cammino non é. Uomo multiforme Pessoa,uno nessuno centomila, l’esatto contrario dell’uomo unidimensionale senza ombra,il banchiere anarchico. Ha trovato in vita la quintessenza del mistero di cui siamo portatori ,enigma fatto persona, formula magica che l’ha accompagnato dalla nascita alla morte: «Se dopo la mia morte volessero scrivere la mia biografia,non c’è niente di più semplice. Ci sono solo due date – quella della mia nascita e quella della mia morte. Tutti i giorni fra l’una e l’altra sono miei.»
Nei giorni della forzata clausura spesso mi trovo davanti alla libreria in salotto ad occhieggiare i titoli dei libri e gli autori che ho amato nel mio passato di distratto lettore.Con rammarico noto spesso che i libri che un tempo consideravo importanti e che mi avevano dato tanto, oggi mi annoiano e non mi trasmettono più quel sacro fuoco e curiosità di un tempo.Dato che i libri sono gli stessi é certo che questo dipenda dal fatto che in me c’é stato un cambiamento che mi fa vedere le cose in maniera diversa. C’é però un eccezione, ci sono anche libri che ho rivalutato come “Il Viaggiatore” di Stig Dagerman,libro che all’epoca dell’acquisto non mi aveva particolarmente colpito. Stig Dagerman (5 ottobre 1923- 5 novembre 1954) é stato giornalista e scrittore svedese;talentuoso,sensibile,libertario, concluse la propria esistenza suicidandosi a soli 31 anni.Visse un infanzia complessa,abbandonato dai genitori poveri, crebbe presso i nonni paterni.Descrisse quel periodo come molto felice.In seguito alla morte dei nonni fu accolto in casa dal padre,che lo iniziò all’anarchismo e al sindacalismo. All’epoca cominciò a scrivere per l’unione sindacale giovanile e poi divenne redattore del giornale Storm; collaborò anche con il giornale anarchico sindacalista Arbetaren.
In seguito lasciò la carriera giornalistica per dedicarsi in esclusiva alla scrittura di racconti,romanzi,ottenendo un immediato successo.Dal 1945 al 1950 uscirono diversi libri,novelle,racconti che lo resero uno scrittore culto in tutta l’area scandinava.Un inaridimento delle fonti di ispirazione e una devastante depressione lo portarono pochi anni dopo a porre fine ai propri giorni. Qui riporto uno breve racconto,tra i più conosciuti e carico anche di una cifra stilistica che reputo perfetta,che mi servirà per un commento della sua opera e della sua visione del mondo.
UCCIDERE UN BAMBINO (1948)
E’ una giornata mite e il sole splende obliquamente sulla pianura. E’ domenica, tra poco suoneranno le campane. Fra i campi di segale due bambini hanno scoperto un sentiero che non avevano mai percorso e nei tre villaggi della piana luccicano i vetri delle finestre. Gli uomini si radono davanti a specchia appoggiati su tavoli da cucina, le donne canterellano affettando il pane per il caffè, e i bambini si abbottonano le camicette. E’ la mattina felice di un giorno infausto perché in questo giorno nel terzo villaggio un bambino sarà ucciso da un uomo felice. Il bambino è ancora seduto sul pavimento e si abbottona la camicetta, l’uomo che si sta radendo la barba dice che oggi faranno una gita in barca sul fiume mentre la donna canterella e mette il pane appena affettato su un piatto blu. Non vi sono ombre nella cucina e l’uomo che ucciderà un bambino si trova ancora vicino a una pompa rossa della benzina del primo villaggio. E’ un uomo felice, che guarda dentro una macchina fotografica e nell’obbiettivo vede una piccola automobile blu e accanto all’automobile una ragazza che ride. Mentre la ragazza ride e l’uomo scatta la bella fotografia, il benzinaio stringe il tappo del serbatoio e annuncia che avranno una bella giornata. La ragazza si siede nell’auto, l’uomo che ucciderà un bambino estrae il portafoglio dalla tasca e spiega che arriveranno al mare e al mare affitteranno una barca e poi andranno a remare al largo, molto al largo. Attraverso i finestrini abbassati la ragazza sul sedile anteriore sente quello che dice e chiude gli occhi e ad occhi chiusi vede il mare e l’uomo accanto a lei nella barca. Non è certo un uomo cattivo, è felice e contento e prima di salire in macchina si sofferma un attimo davanti al radiatore che splende al sole a godere di quel luccichio e dell’odore di benzina e di biancospino. Nessuna ombra si proietta sull’auto, il paraurti splendente non ha nessuna ammaccatura né la minima traccia rossa di sangue. Ma nello stesso momento in cui nel primo villaggio l’uomo dell’auto richiude la portiera di sinistra e tira verso di sé il pomello dell’avviamento, nel terzo villaggio la donna nella cucina apre la dispensa e si accorge che non c’è più zucchero. Il bambino, che ha finito di abbottonarsi la camicia e si è allacciato le scarpe, è in ginocchio sul divano e guarda il fiume che serpeggia tra gli ontani e la barca nera tirata in secco sull’erba. L’uomo che perderà il suo bambino ha finito di radersi la barba e piega lo specchio.Sulla tavola ci sono il caffè, il pane, la panna e le mosche. Manca solo lo zucchero e la madre dice al suo bambino di correre dai Larsson a chiederne in prestito qualche zolletta. E quando il bambino apre la porta l’uomo gli grida di far presto, che la barca è sulla spiaggia che aspetta e che devono remare più lontano di quanto non abbiano mai remato. E mentre corre attraverso il giardino il bambino non fa che pensare al fiume e alla barca e ai pesci che guizzano e nessuno lo avverte che gli restano soltanto otto minuti da vivere e la barca rimarrà dov’è per tutto quel giorno e per molti altri giorni ancora. I Larsson non abitano lontano, appena dall’altra parte della strada e mentre il bambino l’attraversa correndo, la piccola automobile blu entra nel secondo villaggio. E’ un piccolo villaggio di casette rosse e di gente appena sveglia che siede in cucina colla tazza del caffè in mano, e vede l’auto che sfreccia al di là della siepe sollevando dietro di sé un’alta nuvola di polvere. Viaggia a gran velocità e l’uomo al volante vede i meli e i pali del telegrafo incatramati di fresco sfilargli accanto come ombre grigie. L’aria dell’estate soffia attraverso il parabrezza mentre escono sfrecciando dal paese e procedono veloci e sicuri al centro della carreggiata, sono soli sulla strada – per ora. E’ meraviglioso viaggiare così soli su una strada ondulata e larga, e in pianura è ancora più bello. L’uomo è felice e forte e col gomito destro sente il corpo della sua donna. Non è certo un uomo cattivo. Non farebbe male a una mosca ma tra qualche istante ucciderà un bambino. Mentre sfrecciano verso il terzo villaggio la ragazza chiude di nuovo gli occhi e, per gioco, dice che non li riaprirà fino a che non si vedrà il mare e sogna, al ritmo del dondolio dell’auto, quanto le apparirà splendente. Perché la vita è congegnata così spietatamente che un minuto prima di uccidere un bambino un uomo felice è ancora felice e un minuto prima di urlare di terrore una donna può chiudere gli occhi e sognare il mare, e nell’ultimo minuto di vita di un bambino i suoi genitori possono stare seduti in cucina ad aspettare lo zucchero e a parlare dei suoi denti bianchi e di una gita in barca e il bambino stesso può chiudere un cancello e avviarsi attraverso una strada con delle zollette di zucchero avvolte in carta bianca nella mano destra, e per tutto quest’ultimo minuto non vedere altro che un lungo fiume scintillante con grandi pesci e una grande barca coi remi silenziosi. Dopo è troppo tardi. Dopo c’è una macchina blu di traverso sulla strada e una donna che urla si leva una mano sulla bocca e la mano sanguina. Dopo un uomo apre la portiera di un’automobile e cerca di reggersi sulle gambe nonostante l’abisso di orrore che ha dentro di sé. Dopo vi sono delle zollette di zucchero bianche assurdamente sparse nel sangue e nella ghiaia e un bambino giace inerte sul ventre con il volto brutalmente schiacciato contro la strada. Dopo accorrono due persone pallide che non sono ancora riuscite a bere il loro caffè e si precipitano verso un cancello e quello che vedono non lo dimenticheranno mai. Perchè non è vero che il tempo guarisce tutte le ferite. Il tempo non guarisce le ferite di un bambino ucciso ed è molto difficile che guarisca il dolore di una madre che ha dimenticato di comperare lo zucchero e manda suo figlio dall’altra parte della strada a chiederlo in prestito; ed è altrettanto difficile che guarisca l’angoscia di un uomo un tempo felice che ora l’ha ucciso. Perché chi ha ucciso un bambino non va più al mare. Chi ha ucciso un bambino guida lentamente verso casa, in silenzio, e accanto a sé ha una donna muta con una mano fasciata e in tutti i villaggi che attraversano non vedono più un solo uomo felice. Tutte le ombre sono cupe e quando i due si separano sono ancora in silenzio e l’uomo che ha ucciso un bambino capisce che quel silenzio è il suo nemico e che gli ci vorranno anni della sua vita per sconfiggerlo gridando che non è stata colpa sua. Ma sa anche che questa è una menzogna e la notte nei suoi sogni si struggerà di poter avere indietro un unico minuto della sua vita per far sì che quest’unico minuto possa essere diverso. Ma la vita è così spietata con colui che ha ucciso un bambino che dopo è troppo tardi per qualsiasi cosa.
Questo breve contributo fa parte del libro “Il viaggiatore”, raccolta di nove racconti scritti dal 1947 al 1953 con prefazione di Goffredo Fofi edizione Iperborea, casa editrice specializzata nella letteratura nordeuropea di area scandinava. Uccidere un bambino rappresenta un capolavoro di ordine stilistico,con una scrittura che ricalca il linguaggio cinematografico attraverso il montaggio alternato, con i diversi punti di vista dei protagonisti,che convergono verso la tragedia annunciata e non differibile, un fato ineluttabile, un pathos che cresce e lascia inchiodati alle parole,parole come Perché e Dopo che vengono ripetute ossessivamente a creare un climax, una scrittura di una perfezione intollerabile,lineare e necessaria,con un vocabolario base e senza sbavature. Quasi tutti i nove racconti ricalcano tragedie minori,”perché le tragedie maggiori sono già state scritte”.Storie di bambini poveri, soprattutto,di famiglie disagiate,di perdita di purezza,di degrado,di mancanza di umanità.Realtà esistenziali fatte di emozioni come la paura,senso di colpa,solitudine,vissute e ben conosciute da Dagerman nella sua infanzia. Nella prefazione al volume Fofi parla di uno scrittore di grande statura “appartenente alla schiera dei ribelli all’ingiustizia sia sociale che metafisica del mondo,che questa rivolta ha pagato con la vita,morendo suicida in eta’ molto giovane”. Lo si può accostare a Kafka o al coevo Camus,che scriveva La Peste solo qualche anno prima.La comunanza è data dallo stare sempre dalla parte degli offesi ed umiliati,dalla descrizione e dallo scacco di dolorose realtà esistenziali come l’angoscia e l’assurdo. Ma se Camus assolveva questo compito con espedienti letterari, come nell’incipit dello “Straniero”,in Dagerman la scrittura rimane aderente alle vicissitudini della sua biografia, facendone quasi scrittore neorealista.I libri segnano ogni passaggio della sua parabola esistenziale. Vedo invece molti punti di contatto con un altro grande scrittore,suggestioni matematiche e purezze giovanili frustrate dagli adulti: il Salinger del libro di culto “il Giovane Holden” ed anche dei “Nove racconti”.Trovo strano che nessun critico letterario abbia evidenziato l’arcano legame che unisce questi due autori,che scrivono i loro nove racconti quasi in contemporanea,dal 1947 al 1953 Stigman e dal 1948 al 1953 Salinger. Risulta addirittura imperscrutabile che ambedue abbiano incentrato le loro scritture e riflessioni sul difficile rapporto degli adolescenti con il mondo degli adulti e la difficoltà del crescere in una realtà successiva alla guerra. La gioventù vista come luogo privilegiato della purezza,unico valore in grado di avvalorare il passaggio degli uomini su questa terra. Ed ancora il degrado della purezza causato dalla famiglia e da istituzioni come la scuola.Le assonanze non finiscono certo qui, se pensiamo a come hanno terminato alla stessa maniera anche le loro storie di scrittori ,Dagerman suicida per consunzione creativa (come dimenticare l’epigrafe a pié di pagina del libro che recita beffarda:“Qui riposa uno scrittore svedese caduto per niente, sua colpa fu l’innocenza dimenticatelo spesso”),e la leggendaria scomparsa dalle cronache letterarie in una cercata autoreclusione per Salinger: ditemi se questo non possa configurarsi come un suicidio rituale. Certo che poi gli stili di scrittura divergono in maniera marcata,così come marcata era la differenza nelle biografie personali, Il Salinger intellettuale ebreo di estrazione borghese,che narra storie di piccola borghesia ipocrita,con tono pacato ed elegiaco, dove sembra che tutto funzioni alla perfezione,salvo quell’intoppo finale che manrovescia tutta la storia,però sempre con dolcezza, quasi a dipanare un mistero nascosto nella realtà,una realtà a volte zen,che si coglie in un impercettibile particolare,il tutto ammantato da un’aurea nostalgia,come se l’autore facesse fatica a distaccarsi dalle cose che ha evocato con la parola; di contro uno Stigman che usa la parola come un bisturi che incide in profondità nel guasto corpaccione della realtà malata e gonfia di malattie come la povertà,il cinismo,il compromesso,l’innocenza perduta o forse mai avuta,l’insaziabile desiderio di purezza;insomma dà parola a chi parola non ha,i poveri e i naufraghi della vita,descrivendo psicologicamente tutti i moti del pensiero di questi poveretti delusi da false promesse,dalle contingenze,dal degrado, dal sapere ancora prima di crescere di essere destinati all’ invisibilità.La parola in Dagerman si fa cronaca e denuncia,in stile quasi giornalistico,ripetizione ossessiva e ripetuta a sottolineare il preciso momento del disastro,quando il Fato ghermisce le vite dei più deboli.E’ questo uno sguardo che non arretra,non trema,non ha paura,non ha pudore a mostrare l’ultimo smacco. E’ sguardo trasparente come al cinema é quello del quasi conterraneo Aki Kaurismaki,in un film epicamente triste come La piccola Fiammiferaia.
L’interesse per gli ultimi é carattere imprescindibile della forma mentale di Dagerman,mediato anche dal suo passato di giovane redattore delle riviste anarchiche svedesi Storm e Arbetaren. Nell’articolo “Io e l’anarchismo” ebbe a scrivere: “Lo scrittore anarchico é colui che assolve il modesto ruolo del lombrico nell’humus culturale che,senza di lui,resterebbe sterile a causa dell’eredità delle convenzioni”.Ed ancora sulla democrazia: “E’ una varietà completamente nuova di inumanità che non sfigura al confronto ai regimi autocratici passati”.Per Dagerman la democrazia in fondo non é altro che una forma di ragionevolezza a perdere,l’accettazione di una resa delle cose.Alla politica come arte del possibile egli contrappone la politica dell’impossibile. Il severo giudizio espresso nei riguardi della democrazia statuale europea lascerà il posto al disincanto dovuto ai tentativi falliti della Repubblica Catalana nel 1936 e all’assetto preso dall’ Europa alla fine della seconda guerra mondiale,con i fallimenti delle utopie libertarie in ogni angolo del continente.A questa cocente delusione, con l’utopia fallita a livello politico sociale,fa seguito il discorso sul “Nostro bisogno di consolazione” del 1952,vero manifesto della disfatta metafisica dell’uomo in chiave esistenziale.L’incipit del carteggio é fulminante, mettendo subito in chiaro il pensiero di Dagerman che dunque scrive:
Il nostro bisogno di consolazione
Mi manca la fede e non potrò mai, quindi, essere un uomo felice, perché un uomo felice non può avere il timore che la propria vita sia solo un vagare insensato verso una morte certa. Non ho ereditato né un dio né un punto fermo sulla terra da cui poter attirare l’attenzione di un dio. Non ho ereditato nemmeno il ben celato furore dello scettico, il gusto del deserto del razionalista o l’ardente innocenza dell’ateo. Non oso dunque gettare pietre sulla donna che crede in cose di cui io dubito o sull’uomo che venera il suo dubbio come se non fosse anch’esso circondato dalle tenebre. Quelle pietre colpirebbero me stesso, perché di una cosa sono convinto: che il bisogno di consolazione che ha l’uomo non può essere soddisfatto. Io stesso sono a caccia di consolazione come un cacciatore lo è di selvaggina. Là dove la vedo baluginare nel bosco, sparo. Spesso il mio tiro va a vuoto, ma qualche volta una preda cade ai miei piedi. Poiché so che la consolazione ha la durata di un alito di vento nella chioma di un albero, mi affretto a impossessarmi della mia vittima. Cosa stringo allora tra le mie braccia? Poiché sono solo: una donna amata o un infelice compagno di strada. Poiché sono un poeta: un arco di parole che tendo sentendomi pervadere di gioia e di spavento. Poiché sono un prigioniero: un improvviso spiraglio di libertà. Poiché sono minacciato dalla morte: un animale caldo e vivo, un cuore che batte irridente. Poiché sono minacciato dal mare: uno scoglio d’inamovibile granito. Vi sono però anche consolazioni che vengono a me come ospiti non invitati e riempiono la mia stanza di bisbigli volgari: io sono il tuo desiderio – amale tutte! Io sono il tuo talento – abusa di me come di te stesso! Io sono l’amore per il godimento – solo i bramosi vivono! Io sono la tua solitudine – disprezza gli esseri umani! Io sono la nostalgia della morte – recidi! In equilibrio su un asse sottile, vedo la mia vita minacciata da due forze: da un lato dalle bocche avide dell’eccesso, dall’altro dall’ amarezza avara che si nutre di se stessa. Ma io mi rifiuto di scegliere tra l’orgia e l’ascesi, anche se il prezzo dev’essere un tormento continuo. A me non basta sapere che ogni cosa può essere scusata in nome della legge del servo arbitrio. Ciò che cerco non è una scusa per la mia vita, ma il contrario di una scusa: l’espiazione.
Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà è ingannevole, non è che l’immagine riflessa della mia disperazione. Quando infatti la mia disperazione dice: abbandonati allo sconforto, perché il giorno è racchiuso tra due notti, la falsa consolazione urla: spera, perché la notte è racchiusa tra due giorni. L’uomo non ha però bisogno di una consolazione che sia un gioco di parole, ma di una consolazione che illumini. E chi desidera essere malvagio, vale a dire un uomo che agisce come se tutte le azioni fossero difendibili, dovrebbe almeno avere la bontà di accorgersi quando è riuscito nel suo scopo. Nessuno è in grado di enumerare tutti i casi in cui la consolazione è una necessità. Nessuno sa quando cala l’oscurità, e la vita non è un problema che possa essere risolto dividendo la luce per la tenebra e i giorni per le notti, è invece un viaggio pieno d’imprevisti tra luoghi inesistenti. Posso per esempio camminare sulla spiaggia e all’improvviso sentire la spaventosa sfida dell’eternità alla mia esistenza nell’incessante movimento del mare e nell’inarrestabile fuga del vento. Cos’è allora il tempo se non una consolazione perché niente d’umano può essere perenne? E che consolazione miserabile, da arricchire solo gli svizzeri. Posso starmene seduto davanti al fuoco nella più sicura delle stanze e, all’improvviso, sentire la morte che mi accerchia. È nel fuoco, in tutti gli oggetti taglienti che mi stanno intorno, nel peso del tetto e nella massa delle pareti, è nell’acqua, nella neve, nel calore e nel mio sangue. Cos’è allora la sicurezza dell’uomo se non una consolazione perché la morte è prossima alla vita? E che povera consolazione, che riesce solo a ricordarci ciò che vorrebbe farci dimenticare! Posso riempire tutti i miei fogli bianchi con le più belle combinazioni di parole che sorgono nel mio cervello. Siccome desidero assicurarmi che la mia vita non sia priva di senso e che io non sia solo sulla terra, raccolgo le parole in un libro e ne faccio dono al mondo. Il mondo mi dà in cambio dei soldi, la fama e il silenzio. Ma che m’importa dei soldi, che m’importa di contribuire a rendere più grande e perfetta la letteratura? L’unica cosa che m’importa è quella che non ottengo mai: l’assicurazione che le mie parole hanno toccato il cuore del mondo. Cos’è allora il mio talento se non una consolazione per la mia solitudine? Ma che consolazione spaventosa, che riesce solo a farmi vivere la solitudine con intensità cinque volte maggiore!
Posso vedere la libertà incarnata in un animale che attraversa veloce una radura e sentire una voce che sussurra: vivi semplicemente, prendi ciò che desideri e non temere le leggi! Ma cos’è questo buon consiglio se non una consolazione perché la libertà non esiste? E che consolazione spietata, per chi comprende che occorrono milioni di anni a un essere umano per trasformarsi in lucertola! Posso infine scoprire che questa terra è una fossa comune in cui Salomone, Ofelia e Himmler riposano fianco a fianco Posso trarne l’insegnamento che il crudele e l’infelice muoiono la stessa morte del saggio, e che la morte può quindi apparire una consolazione per una vita sprecata. Che orribile consolazione, però, per chi nella vita vorrebbe vedere una consolazione alla morte! Non possiedo una filosofia in cui potermi muovere come l’uccello nell’aria e il pesce nell’acqua. Tutto quello che possiedo è un duello, e questo duello viene combattuto in ogni istante della mia vita tra le false consolazioni, che solo accrescono l’impotenza e rendono più profonda la mia disperazione, e le vere consolazioni, che mi guidano a una temporanea liberazione. Dovrei forse dire: la vera consolazione, perché a rigore non c’è per me che una sola vera consolazione, e questa mi dice che sono un uomo libero, un individuo inviolabile, una persona sovrana entro i miei limiti. Ma la libertà ha inizio con la schiavitù e la sovranità con la soggezione. Il più sicuro indizio della mia mancanza di libertà è il mio timore di vivere. L’inconfutabile segno della mia libertà è che il timore arretra e lascia spazio alla calma gioia dell’indipendenza. Sembra che io abbia bisogno della dipendenza per provare infine la consolazione d’essere un uomo libero, e questo è sicuramente vero. Alla luce delle mie azioni mi rendo conto che tutta la mia vita sembra avere per scopo quello di procurare delle pietre da attaccarmi al collo. Ciò che potrebbe darmi la libertà mi dà schiavitù e pietre al posto del pane. Uomini diversi hanno padroni diversi. Io, per esempio, sono a tal punto schiavo del mio talento che non ho il coraggio di farne uso per timore d’averlo perso. Sono poi così schiavo del mio nome da non osare quasi scrivere una riga per paura di arrecargli danno. E quando infine sopravviene la depressione, sono schiavo anche di quella. Il mio più grande desiderio diventa quello di trattenerla, il mio più grande piacere è sentire che il mio unico valore stava in ciò che credo di aver perduto: la capacità di spremere bellezza dalla mia disperazione, dal mio disgusto e dalle mie debolezze. Con gioia amara voglio vedere le mie case crollare e me stesso sepolto nell’oblio. Ma la depressione ha sette scatole, e nella settima sono riposti un coltello, una lametta da barba, un veleno, un’acqua profonda e un salto da una grande altezza. Finisco per essere schiavo di tutti questi strumenti di morte. Mi seguono come cani, o sono io a seguirli come un cane. E mi pare di capire che il suicidio è l’unica prova della libertà umana. Ma da una direzione di cui ancora non ho idea si avvicina il miracolo della liberazione. Può accadere sulla spiaggia, e la stessa eternità che poco fa ha suscitato la mia paura è ora testimone della mia nascita alla libertà. In cosa consiste dunque questo miracolo? Semplicemente nella scoperta improvvisa che nessuno, nessuna potenza e nessun essere umano, ha il diritto di esigere da me tanto da far dileguare la mia voglia di vivere. Perché se non esiste questa voglia, cosa può esistere allora? Dal momento che mi trovo sulla riva del mare, dal mare posso imparare. Nessuno ha il diritto di pretendere dal mare che sorregga tutte le imbarcazioni o di esigere dal vento che riempia costantemente tutte le vele. Così nessuno ha il diritto di pretendere da me che la mia vita divenga una prigionia al servizio di certe funzioni. Non il dovere prima di tutto, ma prima di tutto la vita! Come ogni essere umano, devo avere diritto a dei momenti in cui posso farmi da parte e sentire di non essere solo un elemento di una massa chiamata popolazione terrestre, ma di essere un’unità che agisce autonomamente. Solo in questi momenti posso essere libero davanti a tutte quelle consapevolezze sulla vita che mi hanno prima portato alla disperazione. Posso riconoscere che il mare e il vento non potranno che sopravvivermi, e che l’eternità non si cura di me. Ma chi mi chiede di curarmi dell’eternità? La mia vita è breve solo se la colloco sul patibolo del calcolo del tempo. Le possibilità della mia vita sono limitate solo se faccio il conto della quantità di parole o di libri che avrò il tempo di produrre prima della mia morte. Ma chi mi chiede di fare questo conto? Il tempo è una falsa misura per la vita. Il tempo è in fondo uno strumento di misura privo di valore, perché tocca esclusivamente le mura esterne della mia vita. (alla vita di ognuno di noi appartiene un proprio tempo interno: un tempo che ha inizio col pensiero e un tempo che ha una fino quando il pensiero muore per sempre) Ma tutto quel che mi accade di importante, tutto quel che conferisce alla mia vita il suo contenuto meraviglioso – l’incontro con una persona amata, una carezza sulla pelle, un aiuto nel bisogno, il chiaro di luna, una gita in barca sul mare, la gioia che dà un bambino, il brivido di fronte alla bellezza – tutto questo si svolge totalmente al di fuori del tempo. Che io incontri la bellezza per un secondo o per cent’anni è del tutto indifferente. Non solo la beatitudine si trova al di fuori del tempo, ma essa nega anche ogni relazione tra il tempo e la vita. Depongo dunque il fardello del tempo dalle mie spalle e, con esso, quello delle prestazioni che da me si pretendono. La mia vita non è qualcosa che si debba misurare. Né il salto del capriolo né il sorgere del sole sono delle prestazioni. E nemmeno una vita umana è una prestazione, ma uno svilupparsi e ampliarsi verso la perfezione. E ciò che è perfetto non dà prestazioni, opera nella quiete. È privo di senso sostenere che il mare esiste per sorreggere flotte e delfini. Lo fa, certo, mantenendo però la sua libertà. Ed è altrettanto privo di senso affermare che l’uomo esiste per qualcos’altro che non sia il vivere. Certo, egli alimenta macchine o scrive libri, ma potrebbe fare qualsiasi altra cosa. L’essenziale è che faccia quel che fa mantenendo la propria libertà e con la chiara coscienza di avere in sé – come ogni altro della creazione – il proprio fine. Egli riposa in se stesso come una pietra sulla sabbia.– Posso anche essere libero dinanzi al potere della morte. Certo, non potrò mai liberarmi dal pensiero che la morte segue i miei passi, e tanto meno negare la sua realtà. Ma posso ridurre la minaccia fino ad annullarla non ancorando la mia vita a punti d’appoggio tanto precari come il tempo e la fama. Non è invece in mio potere restare costantemente rivolto verso il mare e confrontare la sua libertà con la mia. Verrà il tempo in cui dovrò volgermi verso la terra e affrontare gli organizzatori della mia oppressione. Sarò allora costretto a riconoscere che l’uomo dà alla propria vita delle forme che, almeno in apparenza, sono più forti di lui. Con tutta la mia libertà appena conquistata non mi è possibile spezzarle, posso solo lamentarmi sotto il loro peso. Posso però distinguere, tra le richieste che pesano sull’uomo, quali sono irragionevoli e quali ineludibili. Un tipo di libertà, mi rendo conto, è perduto per sempre o per lungo tempo. Parlo di quella libertà che deriva dal privilegio d’essere padrone del proprio elemento. Il pesce ha il suo elemento, l’uccello ha il suo, l’animale di terra il suo. L’uomo invece si muove in questi elementi correndo tutti i rischi dell’intruso. Ancora Thoreau aveva la foresta di Walden, ma dov’è adesso la foresta in cui l’uomo possa dimostrare che è possibile vivere in libertà, al di fuori delle norme irrigidite della società? Sono costretto a rispondere: in nessun luogo. Se voglio vivere in libertà, deve essere – per ora – all’interno di queste forme. ( la mia libertà è quella di reagire e cercare di mutarle) Il mondo è dunque più forte di me. Al suo potere non ho altro da opporre che me stesso – il che, d’altra parte, non è poco. Finché infatti non mi lascio sopraffare, sono anch’io una potenza. E la mia potenza è temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo, perché chi costruisce prigioni s’esprime meno bene di chi costruisce la libertà. Ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità, perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente. Questa è la mia unica consolazione. So che le ricadute nella disperazione saranno molte e profonde, ma il ricordo del miracolo della liberazione mi sostiene come un’ala verso una meta vertiginosa: una consolazione più bella di una consolazione e più grande di una filosofia, vale a dire una ragione di vita.
Il desiderio di consolazione in Dagerman non deve essere confuso con quello di matrice cristiana:( l’etimologia della parola consolazione si riallaccia al verbo latino consolari = confortare, a sua volta formato dal prefisso con- = insieme e da solus = intero ed in senso più ampio, soddisfatto.) Pertanto, consolazione significa il raggiungimento della soddisfazione, della contentezza o, quantomeno, alleviare il dolore con (insieme a) chi è oggetto della consolazione.La matrice cristiana ha calcato di più sul secondo significato,per Dagerman la consolazione rappresenta quell’ontologia dell’essere forte,soddisfacente,che rende il cammino della vita più agevole rispetto alle false promesse che,alla prova dei fatti,nel reale, mostrano tutta la loro inconsistenza. C’é in questo una vicinanza al concetto di Persuasione in Carlo Michelstaedter e in una certa filosofia greca.Vengono etichettate come false,ad una ad una, e poi scartate il credere in Dio,il furore dello scetticismo, il deserto del razionalismo, l’innocenza dell’ateismo.”Non possiedo una filosofia in cui possa muovermi come un pesce nell’acqua od un uccello nell’aria” Ma non c’é neanche consolazione nei casi della vita,nell’amore,nell’amicizia,nel talento,nella bellezza della natura,nel desiderio carnale. La ricerca di Senso fa strage di luoghi comuni e di ogni credo filosofico,lasciando l’uomo Dagerman nudo e debole innanzi al cosmo,al reale.Un cacciatore che ha sparato tutti i suoi colpi, traendone solo una fugace consolazione simile ad “un ala di vento tra gli alberi”. Un’ etica del tragico. Ma beninteso,lo svedese,pur nel tormento della sua scomoda posizione, (“Tutto quello che possiedo é un duello”) non abdica mai alla ricerca di senso seppur tragico della vita; lo dimostra preferendo l’Espiazione alle vuote scuse a cui molti si appendono nel giustificare lo scacco di una vita.Espiazione come contrario di una scusa. Cosa vuol significare ciò?Il linguaggio religioso ha indebolito e avocato a sé termini come consolazione ed espiazione e può essere che Dagerman li usi come inconscio tentativo di evocare antiche certezze deistiche. Ma il Logos dice qualcosa di diverso:espiare nel linguaggio dello svedese rimanda ad un atto commesso in piena libertà, persuaso, e di cui si é disposti a pagarne le conseguenze fino in fondo,proprio perché é atto voluto e cercato.Quanta lontananza dalla non scelta esistenzialista,quanto distacco dal tentennante incedere del Mersault dello Straniero di Camus,accecato da un raggio di sole che ne offusca lo sguardo.Esistenzialismo oggi trionfante con i suoi tristi epigoni del pensiero debole e delle società liquide. Qui al contrario si trova l’immensa forza che ha animato la ricerca di senso in Dagerman. Cosa rimane,se qualcosa rimane all’uomo solo innanzi al Cosmo? “Mi coglie infine il pensiero che qualsiasi consolazione la quale non tenga conto della mia libertà é ingannevole,non é che lo specchio riflesso della mia disperazione” Si’, é proprio questo.L’unica cosa a cui l’uomo può credere é la sua libertà,la sua inviolabilità,io direi la sua unicità o meglio originalità, rispetto a lfarsi del mondo.
(per approfondimenti vedi qui http://www.sentierieparole.com/uncategorized/luomo-si-fonda-sulla-liberta/) Non esistono altre libertà sconnesse dalle proprie origini.Ma poi Dagerman vacilla,sembra non capire la portata della sua apertura all’ontologia libertaria, richiudendosi in un solipsismo lacerante che gli fa preconizzare il suicidio come ultima possibile libertà.Dalle sue confessioni diaristiche promana l’intima disperazione del sentirsi schiavo del proprio personaggio,dell’essere scrittore di successo,del sentire la libertà solo quando é dietro le gabbie della propria personale prigione.Il mondo come prestazione e il talento ingessato come una funzione qualsiasi.Non arriva a formulare ciò che spezzerebbe le catene psicologiche che lo tengono avvinto, e che forse,inconfessabilmente,sono il segreto motore del suo disperato talento,come può essere un canto di cigno nei pressi della morte:quel darsi agli altri senza uno scopo,senza un movente,senza un motivo,generosamente.Anche la comprensione della fallacia del logos,dell’inutilità delle spiegazioni a cui accenna alla fine dello scritto non lo salveranno da un destino da lui intuito;“La mia potenza é temibile finché ho il potere delle mie parole da opporre a quello del mondo…….ma la mia potenza sarà illimitata il giorno in cui avrò solo il mio silenzio per difendere la mia inviolabilità,perché non esiste ascia capace di intaccare un silenzio vivente.“ Dagerman infine rifiuta ed abdica al potere del linguaggio,del logos,capendo che é proprio Lì che é nascosto il tarlo nascosto che allontana sempre l’uomo dalla sua origine,che si può solo intuire ma mai spiegare.
Questa é una ragione di vita. Wittgenstein nella sua più celebre proposizione,la settima, afferma che ciò di cui non si può parlare si deve tacere. Dagerman questo distacco dal logos non l’ha compiuto, perché se per il pesce l’elemento é l’acqua, se per l’uccello l’elemento é l’aria, se per Thoureau l’elemento é la foresta di Walden,per Dagerman l’unico elemento possibile é il linguaggio.
Libertà e uguaglianza,come scrissi in altri interventi, sono i poli in cui ha oscillato, fin dalla sua nascita, il pensiero anarchico.Se in Europa la matrice egualitaria e solidaristica ha avuto un ruolo preminente,dato dalla forte componente operaia e sindacale, in America hanno prevalso le idee libertarie incentrate sul diritto primordiale dell’individuo contro la Stato.Il pensiero di H.D Thoureau ne e’ esempio emblematico.Ora, in questo scritto, vorrei andare più a fondo riguardo all’aspetto concettuale della libertà, perche si rivela essere fondativo non solo in merito al pensiero libertario ed anarchico, ma soprattutto rispetto all’epifania di quello che in termini metafisici viene denominato Essere. Introdurrò a tal proposito, il pensiero di Raimon Panikkar,singolare figura di poliedrico filosofo, nella cui esperienza intellettuale convergono i saperi di Oriente ed Occidente. Vista l’enorme mole di scritti e la vastità della sua visione del mondo, concentrerò l’attenzione sulle sue riflessioni in merito alla libertà, introducendo qualche stralcio del suo pensiero, estrapolato soprattutto dal suo libro “Saggezza stile di vita”(ECP 1993),per poi commentare e confrontare il suo lascito con altri autori che in parte ne condividono le prospettive, e infine chiudere con l’arricchimento che ne può trarre, in chiave sociale, il pensiero anarchico-libertario.
Raimon Panikkar(1918-2010) è stato un filosofo,teologo,presbitero e scrittore spagnolo, madre catalana e padre indiano,teorizzatore e testimone del dialogo interculturale e dell’incontro tra le religioni. Nella sua visione filosofica la libertà dell’uomo rappresenta uno dei capisaldi della dottrina triadica a tre elementi che sono l’umano, il divino e il cosmico. Per cio’ che riguarda la libertà egli scrive parole importanti che delineano un concetto completamente diverso da quello normalmente inteso anche nel pensiero anarchico-libertario. Leggiamo dunque:
“A questo punto c’è molto da dire sulla libertà. Libertà ha poco a che fare con la libertà di scelta. Poiché scelta significa decidere, cioè separare “A” e “B”, operando così un taglio sulla realtà. La libertà non può avere come conseguenza la separazione. […] Di chi deve scegliere si dice che ha l’imbarazzo della scelta. L’imbarazzo non è la libertà. […]Cosa mi accade, che cosa mi si rivela quando mi riconosco libero?anzitutto, e questa è la premessa, faccio l’esperienza che tutta la paura è scomparsa:la paura della vita,della morte,del successo,del fallimento,dell’amore,del disprezzo,della pena,della verità,di me stesso. […] Se sono veramente impavido e non ho più intralci in questo senso, allora sono sciolto da ogni determinazione. Con ciò non intendo i limiti ed i contorni propri della mia natura. Essi mi delimitano e mi danno così la capacità di abbracciare la realtà. (Questo sia detto contro ogni individualismo che fraintenda la libertà con l’assenza di limiti). Ma si tratta di una dimensione più profonda dell’essere, una indeterminazione radicale alla base di tutto ciò che faccio e sono. La libertà in questo senso non è una questione di cromosomi dei miei genitori e dei miei nonni, della cultura e della lingua, dei rapporti sociali e di altri condizionamenti. La sua sfera si trova là dove io, detto metafisicamente, percepisco il nulla (che è un’esperienza senza contenuto, un’esperienza di nulla). Questa esperienza non si può descrivere, si può soltanto lasciarla irraggiare. È il fatto che la mia vita non è stata vissuta ancora e che la vita di quella vita non dipende né da autostrade né da regole d’affari né da qualsiasi altra esteriorità, ma dal niente.[…] La libertà è quel ’esperienza dell’infinità per cui quello che io sono, nessuno lo è mai stato. Al suo inizio sta l’esperienza dell’insostituibilità.[…] Proprio io sono questo nucleo della realtà che in tal caso non è condizionato da nient’altro. È la serietà della vita, l’esperienza della libertà, la convinzione che mi è stato affidato qualcosa e che questo qualcosa è insostituibile e che sono io. C’è presente tutto l’universo, ma ci sono anche io con la possibilità del non-essere.[…] Non sono un pezzo di ricambio che sarebbe sostituibile: se non realizzo quello che io sono, non lo farà nessun altro. Qui non può aiutare nessuno, nessuno mi può rimpiazzare, e proprio perché non si tratta di compiere un lavoro qualsiasi, una qualsiasi funzione. Si tratta dell’essere e non dell’avere, si tratta del fatto che c’è qualcosa dentro di me che è definitivo e irrevocabile. Giobbe parla della via sulla quale non si può tornare indietro (Gb XVI, 22). Questa è l’esperienza della libertà, la massima dignità dell’uomo”.(Saggezza stile di vita -pagine 74-76)
In queste brevi e dense parole Panikkar delinea una serie di contenuti, a diverse trame di realtà, che gettano luce su cosa sia esser liberi:c’è un primo livello,psicologico, in cui le istanze e i desideri dell’Io vengono mediati dalle paure,dalla discendenza biologica e culturale dell’individuo. E’ quella che potrei definire come libertà quantitativa, che sperimentiamo quotidianamente quando decidiamo consciamente di fare una passeggiata ,andare al cinema o leggere un libro. E’ una libertà attiva mediata dalla volontà (Sigmund Freud lo qualificherebbe come principio del piacere e della realtà, Nietzsche come volontà di potenza). Per Panikkar questa non è la vera libertà, perché viziata dalla paura,dalla preoccupazione e dal fatto che è divisiva. Un genere di libertà così ha spesso come approdo la noia e il disincanto:ci si misura con una progettualità quasi isterica, ma dai contenuti intercambiabili a seconda delle mode imposte da altri o da un mood che va per la maggiore in una data epoca storica.La sua caratteristica è l’aleatorietà, la continua ricerca di nuove esperienze per non sentire il vuoto che si ha dentro. Il nichilismo è il germe che ne mina le fondamenta. Un secondo livello di libertà in Panikkar tratteggia una tendenza che dallo psicologico trasla in ambito metafisico.Qui il contributo delle saggezze orientali,buddismo ed induismo, si fa sentire perché il suggerimento è quello di sperimentare il nulla, cioè un’esperienza senza contenuto,un indeterminazione radicale,una sospensione dell’Io a favore del Sé ,a tu per tu con un esperienza che non ha linguaggio descrittivo ma che si può solo esperire. E’ solo in questo spazio mentale, privo di paure e pregiudizi, che si può provare la libertà qualitativa, quella che connota ogni persona come unica oggi e per sempre, quella vertigine infinita, per cui quello che io sono nessuno è mai stato e mai sarà. Esperienza, come detto, non descrivibile, perché prelinguistica,ma si può solo lasciarla irraggiare con atteggiamento passivo. E’ qualcosa, che a dispetto di qualsiasi Inferno in cui si può cadere torna come un canto antico il cui spartito è quel nucleo unico ed insostituibile che mi è stato affidato, cioè me stesso. L’ammonimento finale di Panikkar è eloquente: l’uomo non è un pezzo di ricambio qualsiasi nell’ingranaggio cosmico,se non realizza quello che è, non lo farà nessun altro, nessuno lo può fare, perché quello che io sono è definitivo e irrevocabile. In buona sostanza siamo di fronte alla pietra angolare dell’ontologia di Panikkar,il principio di unicità di tutto quello che esiste:nella realtà non esistono due cose uguali, financo agli stadi primordiali del microcosmo con la sua miriade di particelle.Ogni Ente si caratterizza come unico sia come caratteristiche intrinseche ma anche come relazione con il proprio ambiente,che contribuisce a creare e da cui è anche conformato. Una unicita’ ed una relazionalita’ tra enti di carattere radicale e trascendente.
Si potrebbe forse contestare,nell’esperire il carattere qualitativo ed ontologico della liberta’, che in fondo si tratta di un’esperienza descrivibile in parole,concetti,assiomi e qualsiasi altra diavoleria che la coscienza simbolica di cui disponiamo può mettere in campo, e da qui sostenere che l’atteggiamento psicologico “innato” e la capacita’ dell’ego di denudarsi per approdare in un’area diradata di ingenua ricezione (ingenua nel senso di profonda ricettivita’), sia di difficile se non impossibile realizzazione. Posso rispondere dicendo che in ogni caso il linguaggio presenta un’opacità di fondo ed una tendenza divisiva che mal si conciliano con qualcosa di diverso dall’ Io cosciente.Il linguaggio risulta sempre insufficiente nella descrizione della realtà degli Enti, il Cosmo e’ irriducibile e sempre ridondante rispetto al linguaggio simbolico,che non lo contiene. Faccio mio in toto la fulminea battuta di Korzybski secondo cui “la mappa non è il territorio”,metafora che tiene conto dell’insostituibilità dell’esperienza rispetto al simbolismo delle mappe e di qualsiasi altra forma di linguaggi simbolici.L’esperienza della libertà qualitativa non ha alcuna mediazione culturale,essendo come detto fondativa dell’unicità dell’Essere.Bisogna accostarvisi da ignoranti,chi meno sa più sa,sentirla più che intuirla,come un raggio di sole che “irraggia” e zampilla nel tuo corpo.E’ come sentire la luce sulla pelle,non il suo calore. Chissà forse è un esperienza che abbiamo già vissuto,appena nati quando ancora quasi non conoscevamo la differenza tra noi e il corpo di nostra madre, il tatto era il nostro senso principale e vivevamo di sensazioni prepercettive. Chiusi su noi stessi ma predisposti per imparare velocemente il nostro rapporto con l’ambiente, come ogni cucciolo di specie. Il mistero è alla nascita.Se vogliamo tentare di schematizzare ci si evolve dapprima attraverso la sensazione a cui segue la percezione per terminare nella consapevolezza della compiuta coscienza.Un neonato e’ un formidabile riassunto di quello che la nostra specie ha fatto in termini evolutivi. E’ da li’ che viene la nostra libertà ontologica.Ma,invece che alla fine, essa si situa all’inizio
Per tentare di “capire” quello che confusamente cerco di trasmettere potrei traslare il termine “unicità”, tipico dell’analisi panikkariana, nel termine succedaneo di “originalita‘”dell’Essere,nel senso che siamo in relazione con l’Origine. La nostra nascita ha una doppia origine,dai genitori e da questa sorgente di vita il cui mistero attiva senza sosta la ricerca umana.La relazione tra noi e quello che definiamo Origine non va pensata come quella inerente una causa ed il suo effetto, ma come movimento generativo che mi costituisce come dono vivente, dono fatto in primo luogo a me stesso. Ciò è stato colto mirabilmente da Karl Jaspers:”Io sono, solo se sono a me donato”.(K. Jaspers-filosofia2,Chiarificazione dell’esistenza).La mia identità e libertà è relazionale e il mio valore di persona non è una proprietà di cui faccio uso a piacimento, ma una responsabilità una relazione di accettazione e di svolgimento del dono che sono. E’ solo nelle relazioni e negli atti di gratuità che si schiude in noi lo spazio adeguato ad essere persone uniche e libere.
Libertà nel corso dei secoli.
La libertà nella storia del pensiero umano risulta essere un concetto fondante da cui si dipartono speculazioni riguardanti il libero arbitrio, la volontà, l’atto e tutto quel grumo di concetti alla base dell’agire umano. Compito di questo mio contributo non è certo quello di indagare tutte le sfumature, che dagli antichi Greci ad oggi hanno impegnato il pensiero dei filosofi e dei religiosi.Già troppe pagine scritte. Abbozzando un disegno approssimativo posso dire che il dibattito delle idee si è sviluppato soprattutto nel campo di quella che ho definito libertà quantitativa.Negli Antichi popoli,compresi anche Greci e romani, il determinismo non contemplava alcuna forma di libertà,l’uomo era rigido esecutore delle volontà celesti. Nella tradizione cattolica si è evidenziato il libero arbitrio della scelta tra bene e male, paradigma di quello che è il supporto principale del pensiero Occidentale.Il perdono ne è la logica conclusione,affrancando così Dio dal male nel mondo (teodicea). Una posizione più intransigente la assume Martin Lutero, con il concetto di servo arbitrio, che postula l’incapacità della libera scelta nell’uomo, se non tramite l’intercessione divina. Nel campo più propriamente filosofico le posizioni dei vari Cartesio, Hobbes, Hume fino ai filosofi contemporanei, con sfumature diverse, parlano sempre con un linguaggio di libertà quantitativa,quindi attiva,legata ai diritti e alle libertà individuali dei cittadini, nel solco della Rivoluzione Francese. Uno dei pochi che nega la libertà umana è Spinoza,dato la sua natura di essere limitato caratterizzato da affetto e passioni che ne condizionano il comportamento. Se volgiamo lo sguardo all’antichità,sia nella repubblica Greca che nell’Impero romano, la libertà è vista sempre come un diritto legato alla forza dello Stato e al diritto di chi possedeva la cittadinanza. Appare curioso invece che qualche secolo prima,nella Grecia minoica, prima che Atene ristabilisse un’armonizzazione tra le città elleniche,nel fitto firmamento degli Dei che affollavano la vita degli uomini, esisteva il culto della dea Eleuthia (o Eleutheria), cioè la Dea della Libertà. Ella era la dea del parto e della nascita annuale del bambino divino, dal seno della natura terrestre che genera la vita. Il culto della dea culminava ogni anno nelle cerimonie dei Misteri Eleusini, che erano le più importanti testimonianze misteriche della Grecia Antica. La Dea era considerata così sacra che ci si accostava a lei solo con la restrizione della parola e della vista. Sempre la dea Eleuthia presiede alla nascita di Atena dalla testa di Zeus, che garantisce l’indissolubile legame tra libertà e sapienza. Ecco che appare,in un tempo remoto,alle radici del sapere umano, la primogenitura di quello che ho definito libertà qualitativa.Ora si comprende meglio ciò che intende Raimon Panikkar.
Qui abbiamo due interpretazioni della parola libertà:una antica che la definisce come nascita di una nuova vita sacra, ed una più recente che è quella della libera scelta dell’agire umano. Invero non è certo la prima volta che una parola assume un vestito concettuale diverso da quello conosciuto.Un esempio classico è la parola greca psiche, che nei poemi omerici era riferita alla funzione del respirare,io respiro; mentre oggi riguarda tutto ciò che è il pensiero ed il mentale. Ma la stessa filologia e la linguistica ci insegnano che le parole arcaiche non vengono mai dimenticate né soppresse,ma cambiano di significato a seconda delle epoche storiche e delle forme mentali della cultura che incontrano. Nell’oceano della semantica le parole sono come sassi levigati dal mare. Proprio per questo il concetto di libertà è nato nel seno dell’antica Grecia con un carattere forte,ontologico,come caratteristica essenziale dell’esser nato,dell’esser-ci direbbe Martin Haidegger, racchiudendo in sé il mistero e l’unicità della vita umana. Mentre il suo significato è sfumato nel tempo,diluendosi nel divenire storico solo come mera possibilità di scelta contingente.Cosa è che ha contribuito a codesta banalizzazione del suo significato? Come è stato possibile uno spostamento semantico di tale portata? Spostamento,che è importante sottolineare ha inciso notevolmente nelle forme mentali, religiose e filosofiche delle future generazioni. A mio parere molto ha contribuito l’inflazione di progettualità che ha iniziato ad avvelenare il pensiero umano. Il mondo greco antico subiva importanti cambiamenti legati anche alla trasformazioni delle società arcaiche in società molto simili alle nostre, con i primi rudimenti del diritto ,dell’economia politica e della scienza. Gli obbiettivi ed i mezzi necessari per i nuovi bisogni del cittadino della polis hanno iniziato a forgiare la mente degli uomini, lo scopo sopra qualsiasi altra cosa. Tutto ciò ha precipitato l’uomo nel mondo della causa-effetto. La scelta tra tante possibilità ha contribuito alla divisione del mondo in categorie.La libertà e l’unicità dell’uomo frantumati nel divenire incessante. Ma questo non spiega ancora tutto, si potrebbe facilmente essere contestati al grido che non esiste vita senza progetto. All’uopo bisogna introdurre quello che ritengo essere l’atteggiamento più pernicioso per la coscienza dell’uomo moderno: coltivare il culto della speranza. La Dea Speranza,equivalente romana della greca Elpis,è tradizionalmente definita come l’ultima dea, in quanto,dalla narrazione del mito di Pandora, e’ l’ultima ad uscire Dal Vaso quando tutti i mali che infestano il mondo sono già usciti.Rimane, per volontà di Zeus, solo la speranza come consolazione dell’umanità. Ma pur sempre rimane un male.Come tanti racconti, anche di epoca paleocristiana,come il mito di Adamo ed Eva, queste storie sono invero delle potenti metafore che raccontano meglio di qualsiasi discorso la forma mentale delle epoche in cui sono nati.Non sono da prendere alla leggera. All’inizio di queste metafore c’e’ sempre una disobbedienza,una trasgressione,una scelta individuale, a cui segue una punizione.In questa sede però mi preme sottolineare che anche nel caso del mito di Pandora la speranza subisce uno slittamento di valore semantico.Se nel mito greco il suo ruolo era consolatorio, quindi passivo, dal cristianesimo in poi,quando la speranza viene reclutata come virtù teologale,assume carattere attivo,legandosi quasi senza soluzione di continuità al progetto umano. Anche papa Francesco ha riflettuto di recente sulla speranza,dicendo che “la speranza non è ottimismo ma ardente aspettativa”. Come dire che da qualsiasi progetto, sacro o profano, qualcosa si dovrà pur ricavare. Già Emil Cioran nelle sue acuminate e corrive riflessioni aveva bollato la speranza come “forma normale del delirio”. Più sommessamente,ma forse in maniera più approfondita,la filosofia preesistenzialista di Carlo Michelstaedter, inascoltata voce di scrittore che per destino riesce postuma a se stessa, dicevamo questa voce inaudita ebbe a dire a riguardo anche della speranza umana:“Qualcosa è-qualcosa è per me-mi è possibile la speranza-sono sufficiente.“ (C.Michelstaedter-La persuasione e la rettorica-Adelphi 2005 pag. 53)
Questo è il cerchio senza uscita della individualità umana, ripreso dai frammenti del presocratico Eraclito. Michelstaedter la chiama “philopsychia”, l’«amore vile per la vita», che consiste in un continuo proiettarsi nel futuro, in una vita tutta concentrata nel conseguimento degli obiettivi prefissi. Questa è, citando ancora il goriziano, una «persuasione inadeguata»: l’uomo in questo modo non riesce a vivere senza soffrire, non riesce a vincere la paura della morte. Michelstaedter,con Eraclito,stana l’ontologica insufficienza dell’uomo, insufficienza creata dalle sue “inclinazioni”. Come se la raggiunta libertà quantitativa, la volontà di potenza,corroborata da una robusta dose di speranza, allontanasse l’uomo dal suo primigenio status di perfezione,perfezione marchio di fabbrica dell’Essere. Quella ontologica unicità e libertà dell’Essere, quella vertigine unica che chiamiamo me, quell’impossibilità primigenia di essere sostituito da qualcuno d’altro che non sia me stesso. Si potrebbe postulare un grafico cartesiano per cui più ci si allontana dal grado zero di libertà,qualitativo, più si acquisiscono gradi di libertà mondana, quantitativa, a cui ci si aggrappa per RACCONTARSI la favola del vivere. L’uomo antico aveva un carattere forte ed una visione unitaria,il divenire era tenuto a bada dal firmamento degli dei che costellava il cielo del Cosmo,oggi il Dio Monoteista tiene a se’ la visione unitaria e lascia gli uomini in balia del divenire. Ci si rimira in uno specchio rotto le cui parti rimandano un puzzle che deve essere decifrato.L’ultimo filosofo che ha tentato di ricomporre lo specchio è stato anche quello che indirettamente ha tentato di colpire l’unicità dell’Essere in maniera più convinta.Sto parlando di F. Nietzsche e della sua teoria dell’Eterno ritorno dell’uguale. Guardato dal punto di vista dell’autore, l’eterno ritorno non è una condanna all’eterna ripetizione ma la conquista della realtà con l’identificazione di essere e divenire.L’eterno ritorno esprime e soddisfa la volonta di potenza. Lascia interdetti vedere realizzato in filosofia il feroce determinismo di Laplace ( datemi le condizioni iniziali e vi calcolerò la traiettoria di qualsiasi oggetto) ,con l’aggiunta che ciò si protrarrà all’infinito. Sono più propenso ad appoggiare quest’altra affermazione: “Nietsche volle minuziosamente innamorarsi del proprio destino.Seguì un metodo eroico: disseppellire l’intollerabile ipotesi greca dell’eterna ripetizione,scuola stoica, e poi cercare di dedurre da quell’incubo mentale un occasione di giubilo.Cercò l’idea più orribile dell’Universo e la propose per il diletto degli uomini.”(J.L.Borges). Inflazionare l’unicità dell’Essere in immemori ripetizioni vetrifica l’uomo in una statua che non ha più nulla di umano,ma rammemora inquietanti figure pompeiane. Un assurdo ontologico. Si è unici perché si è liberi, si è liberi perché si è unici,la strada che si percorre nella vita non è stata tracciata da nessuno,la si deve costruire giorno per giorno cercando sempre sé stessi nel fondo delle nostre decisioni,con serietà e caparbiamente,non troveremo nessuno ad indicarci la via migliore, perché la conosciamo solo noi,la nostra vite sono lo specchio di quello che noi siamo. Anche e soprattutto quelle fallite. Per questo l’incubo prospettato da Nietzsche non può aver seguito.La vita di ognuno è dentro l’adesso,dentro la sequenza degli adesso che sperimentiamo quotidianamente.
Una visione nel solco delle filosofie irrazionali è quella proposta dal filosofo Emanuele Franz,che postula l’impossibilità della libertà umana.”L’uomo,per dirsi veramente e assolutamente libero,dovrebbe coincidere con la totalità e quindi in ultima analisi non sarebbe.Quindi o c’è l’uomo o c’è la libertà.”(l’inganno della libertà….Edizioni Audax pag. 54). La conseguenza,per l’autore, è che l’uomo ha una ed una sola scelta primigenia,un atto originario unico ed incontrovertibile, e da quella decisione discendono tutte le altre che ne risultano succedanee.La scelta primigenia è “della questione più capitale che si sia mai posta nell’Etica umana, ovvero se l’uomo possa,e debba, vivere per sé stesso o vivere per l’altro”.(pag.78) A mio parere il Franz crea una filosofia della non libertà basandosi su un assunto risibile e una conseguenza (vivere per sé stesso o per l’altro)che non fa differenza ,perché qualsiasi inclinazione che abbiamo in vita è frutto del rapporto che abbiamo avuto con l’ambiente e con gli uomini a noi prossimi. Noi siamo la risultante di quest’orizzonte di vita, che è sia vivere per se’ stessi che per gli altri. Non c’è alcun uomo che sia solo San Francesco o solo Donald Trump. L’assunto poi appare debole perché non si può mettere in relazione l’uomo con la libertà,che nell’espressione del Franz appare essere un concetto frutto della logica e del linguaggio umano,quindi libertà quantitativa e mondana. Appare a tal proposito chiarificatrice la riflessione di G. Bataille a proposito delle semantiche umane: “Non posso considerare libero un essere che dentro di sé non nutra il desiderio di sciogliere il legame del linguaggio”. Come ho scritto già in precedenza,la libertà qualitativa è intangibile dal linguaggio,se ne può fare solo esperienza nell’intimo farsi della nostra coscienza.Nel momento che la pensi l’hai già perduta.Non si devono rincorrere casi eccezionali perché possa disvelarsi ,come inteso dagli antichi Greci.(Aletehia).Non bisogna essere anacoreti o devoti di qualche setta, né esser bravi nelle tecniche di meditazione o nei balli dei dervisci roteanti.Tempi disgraziati come questi sono adatti a sperimentarla,quando la paura della pestilenza ci rigetta nelle braccia del Fato,come succedeva ai nostri antenati.Quando tutte le certezze crollano,quando le cattedrali scientifiche e del pensiero non riescono a calmare l’angoscia della fine possibile e a portata di mano,quando nessuna speranza è riposta in qualche azione risolutrice,solo allora sentiamo la vita scorrere lenta e solenne, solo allora sentiamo i colori del mondo più brillanti, solo allora ogni gesto è carico di significato, solo allora siamo centrati sulla libertà che entra a far parte fin nel profondo delle nostre fibre e compartecipa alla nostra unicità. Siamo stati quello per cui siamo nati? oppure no?Bisognerebbe evitare di rispondere a questa domanda negli ultimi istanti delle nostre vite.
Gnothi seauton: conosci te stesso. Questa è la scritta che campeggiava sul pronao del tempio del Dio Apollo a Delfi e che per secoli ha influenzato i più importanti pensatori della cultura occidentale: da Socrate a Platone, da Sant’Agostino a Kant. Nell’antica Grecia gnothi seautón era innanzitutto un richiamo a conoscere e riconoscere i propri limiti. Conosci te stesso significava dunque prendere coscienza della propria fragilità ed imperfezione.Ma essendo pensiero piuttosto lasco è stato usato anche e soprattutto come sprone per la ricerca esistenziale. Una ricerca che suggerisce al’uomo di conoscersi, di operare quindi un cambiamento per pervenire al proprio sé migliore, edificando se stesso secondo il proprio desiderio e la propria inclinazione. Socrate con la maieutica spronava i suoi allievi in questa ricerca interiore in funzione del cercare e trovare la verità. Ritengo che i concetti cardine dell’Occidente come Verità,Giustizia,Bellezza,Bene,Male siano viziati in origine dall’esser pensati.Solo la libertà ha carattere fondativo dell’Essere perché è caratteristica indissolubile con l’unicità di cui siamo portatori alla nascita. Per me conoscere me stesso è tutt’uno con lo sperimentare quest’unità basilare del sé. E che poi venga la morte, non fa alcuna differenza. Diceva Epicuro che: “La morte non accade a colui che muore, perché quando questa arriva, lui cessa di esistere.”: Detto in maniera ancora più telegrafica:“Non c’ero; sono stato; non sono; non mi riguarda”. E se temiamo il momento del trapasso per le possibili sofferenze, ricordiamoci che Epicuro credeva nelle capacità dei bei ricordi di alleviare le sofferenze. Più che i bei ricordi penso che sia taumaturgico pensare che durante la vita si è cercato incessantemente la persuasione, la ricerca interiore del proprio sè. Allora il tempo non è scorso invano.
Alla luce di questo mio pensare è del tutto evidente che il discorso sulla libertà ed unicità di ognuno possa trovare almeno una parziale conferma a livello politico- sociale solo nelle società anarchiche e libertarie. Neanche le democrazie moderne si possono avvicinare minimamente al credo dell’anarchia libertaria, in quanto essa è la sola che cura con devozione il tempio nascosto di ogni persona, così come i rapporti che vi si instaurano nelle piccole comunità che sono il fulcro di questa dottrina politica. Nelle democrazie vige la dittatura della maggioranza, ma pur ritenuta la miglior forma di organizzazione sociale possibile, ha in sé i germi della sua autodistruzione perché l’individuo ne esce schiacciato sotto il peso delle rappresentanze. Nessuno può rappresentare qualcun altro, è in gioco l’intima essenza di ciò che definiamo l’umano.
Questa strana faccenda di Severino! strana per lo meno a quanti vedono nella sua filosofia una bislacca teoria dell’essere in forme para-religiose. Una filosofia, la sua, capace di dar risposte al problema della morte con la stessa sicurezza di un messia. Però c’è un pezzo di umanità sotto il cielo che si assesta bene e con piacere convinto nella sua filosofia. E la convinzione di costoro sulle sue risposte ai massimi dilemmi della vita non è di tipo fideistico, cosa avvilente se no, ma concreta. O meglio concretizzata in un sistema di pensiero che porta le tematiche ontologiche sul piano della critica sociale, dell’analisi dei sistemi politici, con un lucido sguardo alla modernità.
Il ricamo del pensiero, a cui ci hanno abituato tanti filosofi, in Severino non esiste.Piuttosto se metafora si può, la sua filosofia è un lunghissimo solco scavato nella roccia per circa 70 anni della sua vita.C’è un “codice genetico Severino” che accomuna tanti di noi incapaci di spiegare questa adesione profonda al suo pensiero. Ma trovarsi aspirati dalla sua visione degli Eterni è un tutt’uno, almeno personalmente, con la ricerca di risposte immateriali alle angosce dell’esistenza. Senza più il bisogno di fidelizzarsi ad una religione standardizzata come quelle che girano ed hanno sempre girato in lungo e largo.Anche la sua critica alla tecnica è all’interno dello stesso codice genetico. In quanto strettamente collegata ad un sentirsi autarchici nel profondo, che vuol dire anche sentirsi liberi dalla oggettistica che ci assedia.
Quella tecnica che tanto vincente appare con i suoi volumi di fuoco e che in realtà produce l’apocalisse dell’Essere , oltre che ambientale.Tecnica e tecnologie infide in quanto avviluppanti con i loro confort piaceri speranze di vita più lunghe, sì ma di una vita disidratata e svilita. Agli antipodi sta la ricerca interiore selvatica, un pò rustica ma almeno non tronfia, non supponente, non pretenziosa. E’ quella di tanti autarchici genetici, aspiranti eremiti forse. Sono i primi questi a capire fin dall’adolescenza quanta lucidità dà un digiuno casuale, quanto gusto dona un oggetto minuto dopo una carenza di consumi. In costoro c’è quel codice severiniano. E ci si riconosce per tutta la vita. E basta poco perchè la chimica della relazione funzioni subito quando ci si incontra fra sconosciuti prima. E basta poco perchè lo straniamento comune a costoro sappia produrre una presa di distanze dalla modernità che può anche diventare argomentazione.
Escludendo noi selvatici di questo codice, penso agli Ivan Illich, ai Nicola Chiaromonte, agli Andrea Caffi, ai Jacques Ellul, agli Aldo Capitini. Cioè a coloro che naturalmente come in un piano inclinato di cui non erano né padroni né consapevoli hanno prodotto pensieri e azioni in linea con la matrice di quella filosofia, senza semmai aver mai letto nulla di Severino, considerando anche che costui fino agli anni settanta era ancora poco conosciuto fuori dai circoli filosofici. La ricerca dell’essenzialità, asciugare dell’inutile il bisogno, rendersi pellerossa della vita con tutto in un sacco, perciò agenti di una libertà diversa. Diversa perchè essa risuona nell’intimità molto prima della gran cassa delle socialità. L essenzialità della vita di Capitini caratterizzata anche da un vegetarianismo convinto, il “barbone” Andrea Caffi dalla smisurata erudizione capace di non mangiare per settimane solo perchè se ne dimenticava, l’ Ivan Illich che rifiutò l intervento per cancro trattando il dolore con l’antico oppio per anni mentre continuava la sua infaticabile attività e morendo poi di tutt’altro, il Nicola Chiaromonte ineguagliabile nelle sue rivelazioni ostinate e contrarie (chi ci dice che uno schiavo non possa sentirsi più libero del suo padrone?).
E poi il discorso degli Eterni severiniani che rappresenta la base per il rispetto di una vita che non merita di essere frullata da un divenire tecnico, al contrario di quanti senza il nostro codice genetico affermano. Perchè costoro vedono nel pensiero severiniano il pericolo di una accettazione di tutto, un abbandonarsi alla vita senza lottare. Quando la storia ha insegnato che i suoi giganti hanno nuociuto agli altri ma prima di tutto a se stessi. Che il Fare in forme poco parmenidee cioè incapaci di riflettere sul senso profondo delle azioni riguardo ad un Essere che è anche essenza intima e non progettuale conduce ad un nulla spesso devastante.E non a caso parlo di progetto perchè esso è parte in causa di una visione nihilista della vita. Progettare implica infatti il raggiungimento di una meta che rappresenta la finalità del progetto stesso. L’etimo è chiaro.
E qui cominciano i problemi. In quanto se introduciamo il concetto di progetto dovremo parlare inevitabilmente di mezzi per raggiungere quelle finalità, e quindi di quali mezzi meglio ci portano al compimento del progetto. Ma questo significa parlare di ottimizzazione che è il grande baratro della disumanizzazione. Tutti i carnefici della storia sono stati dei grandi ottimizzatori, dagli antichi romani ai Gengis khan agli imperi coloniali agli schiavisti ai nazisti dei lager ai comunisti dei gulag ai cinesi di oggi, comunisti prosaici perchè capitalisti sfrenati alla nostra stessa società occidentale odierna. Tecnica è in sé progetto ed ottimizzazione, e di tutte le ottimizzazioni è la peggiore perchè è quella matematica, quella che fa diventare il parsimonioso così ottimizzante da diventare il peggiore degli avari, cioè disumano e solo.E questa è la stessa fine della nostra società. Disumana, sola, incapace di guardare l’altro se non in una chiave di ottimizzazione degli interessi personali. Tutta la storia delle emi-immigrazioni ci racconta.
Per quanto riguarda più specificatamente il discorso dell’Eterno di Severino esso avrebbe un sostenitore, se ancora fosse in vita, in Aldo Capitini. Quanto la Compresenza capitiniana abbia in comune con gli eterni severiniani lo lascio ai filosofi. La suggestione è forte. In più credo che i due non si conoscessero ma su questo si potrebbero scoprire cose interessanti, visto che il nostro Aldo aveva contatti epistolari con il mondo intero.
Vorrei finire con un antico detto cinese che rappresenta quanto la distanza sia incolmabile fra una visione dai bicipiti forti di questa società che scivola giù inesorabilmente e la delicatezza dell’ontologia severiniana, dove essere ieri oggi domani e nei secoli non perdono la loro presenza e dove nulla è scisso, tutto è con.
“Raggiungere il bersaglio dipende dalla tua forza e dalla tua precisione,ma per centrare il bersaglio sei tu a precedere la tua freccia nel centro”.
Ai bicipiti forti Severino contrapporrebbe l’olismo, dove mente e corpo non hanno ragione di essere nominati separatamente e il progetto che è futuro c’è già.Il futuro è già qui tra noi diceva Severino. E qui si aprirebbe un capitolo enorme sulla capacità di prevedere il futuro di alcuni soggetti, che tanto hanno fatto impazzire scienziati e neuropsicologi, ottimizzatori..Ma questa è già un’altra storia.
Quando si parla di Padri Fondatori dell’Anarchia il pensiero corre subito a Kropotkin o a Bakunin, oppure scorrendo indietro nel tempo si puo’ menzionare P.J. Proudhon, quando ancora l’ubriacatura del secolo dei Lumi e della rivoluzione Francese non si era ancora spenta. Ma, proprio perche’ i fili della Storia si complicano ed intersecano senza sosta, esistono anche altri pensatori che hanno dato un contributo determinante nella formazione dell’idea libertaria alla base dell’Anarchia. Appare curioso che oggi un filosofo come Henry David Thoreau sia menzionato come uno degli artefici del pensiero Libertario, essendo egli stesso assai contrario alle idee anarchiche, foriere di caos e confusione come ebbe modo di scrivere. Questa apparente contraddizione e interpretazione delle idee dei padri fondatori puo’ essere spiegata dal diverso contesto in cui si sono sviluppate le idee dell’uno e degli altri: L’anarchismo di stampo europeo era in diretta “concorrenza” con le idee marxiste ed incentrava la sua azione politica attraverso le lotte sindacali e contadine in vista di un miglioramento in chiave egualitaria e di opportunita’ in campo socio-economico delle masse proletarie europee alle prese con monarchie ed oligarchie piu’ o meno violente. Thoreau esplicava la sua filosofia attraverso l’iniziativa individuale, l’esempio singolo ,come ebbe a scrivere nella Disobbedienza Civile ed anche in Walden ovvero la vita nei boschi. Pur agendo nello stesso periodo storico (prima parte del 19° secolo), le condizioni specifiche esistenti nel Vecchio continente ed in America erano molto diverse, e questo e’ stato determinante per discernere le esperienze intellettuali e di vita degli interpreti del pensiero anarchico, che si nutre di/nella Storia.
Il nostro è uno sguardo privilegiato, perche’ è rivolto ad un passato lontano che puo’ essere indagato con maggior discernimento e con una prospettiva unitaria. Prospettiva che mi porta a formulare l’ipotesi che il pensiero di Thoreau, cosi’ incentrato sulla sacralita’ ed intangibilita’ della libertà dell’uomo, sulla frugalità del vivere,sulla disobbedienza civile non violenta quando non si e’ d’accordo con i proponimenti del proprio Governo, sul contatto con la Natura, fonte di saggezza e forza per l’individuo ricettivo alle sue istanze, pensiero dicevo che ha lasciata intatta la sua forza persuasiva anche a distanza di quasi 200 anni, come dimostra anche l’influenza che hanno avuto le idee thoreaiane nei confronti di giganti del calibro di Tolstoj o Ghandi. In buona sostanza si potrebbe dire che le organizzazioni statuali cambiano, si evolvono, secondo schemi di complessita’ che lascerebbero spiazzati i Bakunin o i Kropotkin odierni. Così e’ successo ai marxismi sparsi per il mondo e non di meno alle forme di anarchia europee, che hanno lasciato pochi segni del loro passaggio storico, intesi in senso propositivo e non distruttivo.Alla fine il capitalismo ha fatto meglio nel cambiare le condizioni economiche di milioni di persone nel mondo, accogliendo in parte, come una spugna, le istanze delle Sinistre in cambio di un’aderenza entusiasta allo stile di vita consumistico tipico del capitalismo mercantile,come oggi la Cina insegna. Altra cosa è l’incontro del pensiero di Thoreau con il capitalismo, connotato da un’irriducibilità che non conosce compromessi. Irriducibilità che ha il suo pernio nel concetto di libertà. Concetto ,questo della libertà, che non soffre di alcun relativismo, cioe’ di possibile interpretazione ed opinione a seconda delle esigenze personali. In questo ci viene in soccorso Tolstoj :”In ultima analisi la vera libertà consiste nel fatto che ogni uomo sia in grado di vivere e agire secondo il proprio giudizio”. Il giudizio che ogni uomo possiede è frutto della vita autentica che Thoreau propone e incoraggia in ogni individuo. Nel bosco di Walden, dove si ritiro’ per vivere in solitudine, studiando,scrivendo e vivendo a pieno contatto con la natura, c’e’ un cartello inciso nel legno con la scritta di un suo famoso pensiero: “Andai nei boschi perché desideravo vivere con saggezza, per affrontare solo i fatti essenziali della vita, e vedere se fossi capace di imparare quanto essa aveva da insegnarmi, senza scoprire, in punto di morte, di non aver vissuto”. Quanta enorme differenza dalla nostra società, tutta intenta a creare bisogni artificiali,desideri insulsi,consumi spropositati,che portano le persone a sacrificare le loro vite in un ideale che ha la consistenza di una bolla di sapone. “Per un apparente destino comunemente chiamato necessità, gli uomini si dedicano, secondo un vecchio libro, ad accumulare tesori che la tignola e la ruggine rovineranno e i ladri entreranno a rubare…..Questa è la vita di un idiota, come gli uomini capiranno quando arriveranno alla fine di essa, se non prima” L’ammonimento di Thoureau travalica le porte del tempo per giungere fino a noi alle prese con i mille affanni del quotidiano,veri o presunti che siano, fresco e intatto come se fossimo anche noi in quel bosco di Walden ad ascoltarlo. Le sue parole sono come uno schiaffo per tutti coloro che si sono abituati a una vita soffocante piena di preoccupazioni inutili, una “vita di silenziosa disperazione”,come lui stesso la definì. Dobbiamo coltivare il coraggio di non dare per scontato quello che ci e’ dato come acquisito dalla consuetudine, dalle antiche saggezze,che possono rivelarsi fallaci nel corso del tempo, così come dobbiamo cercare sempre di non dare per scontata la libertà che abbiamo conquistato nel nostro cammino, che ci potrebbe essere tolta in qualsiasi momento. Dobbiamo avere la forza di mettere tutto in discussione, non dare niente che sia scontato, perche’ quello che va bene per un altro non è detto che vada bene per tutti. Così ci si avvicina al mistero che circonda la vita di ognuno di noi, così uguale e così diversa. Se guardato da questa prospettiva, quasi psicologica, il pensiero anarchico appare essere uno tra i più grandi contributi del pensiero, degno di stare accanto al pensiero buddista o a quello evangelico. Non senza ragione lo stesso Tolstoj ebbe a scrivere: “Il mio anarchismo è solo l’applicazione del cristianesimo ai rapporti umani”chiudendo così il cerchio intorno al ruolo e alle prospettive del Liberalismo anarchico nel mondo odierno.
L‘uomo si frammenta nel suo ciarlare sulla vita o su una realtà di cui non possiede e non possiederà mai le forme. Quando l’ uomo si fa filosofo illusiona se stesso mascherandosi da cogitante e allisciandosi il pizzetto. Poca trippa carissimi. Il dissidio fra Nicola Chiaromonte e Andrè Malraux, per altro ottimi amici e compagni d’arme contro Franco In Spagna, si svolgeva tutto in questo piccolo cortile: Malraux che era l’ esempio vivente dell essere nel fare, la realizzazione del sè nell’ immersione nella vita spesso spericolata sempre avventurosa, Chiaromonte che criticava tale approccio iperattivista cercando, secondo una linea filosofica più classica che mai, un riscontro dei fatti nel pensiero. Il dramma di quest’ ultimo è che se da una parte era condannato all’ uso del verbo per condurre la sua linea esplicativa, dall’ altro era decisamente disilluso sulla capacità delle parole di rappresentare la realtà. La contraddizione si incrociava ulteriormente con un atteggiamento analogo che però aveva proprio il Malraux, per il quale l ‘uomo non aveva alcuna capacità di comunicazione con l’ altro, quindi affliggeva anch’ esso la potenzialità del verbo. E’ un intreccio che potrebbe essere un discreto oggetto di ironie sottili. Pensare cioè che entrambi sconfortavano l uso delle parole ma ne avevano fatto in tutta la loro vita la propria professione come vocazione. Nicola Chiaromonte scrisse tanto e fu uno dei più profondi e originali critici di teatro, Malraux scrisse anche tanto (vinse anche un prestigioso premio Goncourt) ma sempre in questa sconcertante diffidenza verso la parola. L’impressione è che, per tornare al nostro, Chiaromonte riuscisse a trovare per la sua intelligenza una area pneumatica intermedia in cui riuscire a respirare vivere lavorare. Consapevole di quanto fosse improbabile il suo esistere a mezz’ aria. Chissà se la sua passione per il teatro fosse legato a questo. Ciao.
Comprendere Murray Bookchin significa integrarlo nel flusso storico dell’anarchismo sociale, specialmente quello di impronta russa, Kropotkin e il suo mutuo appoggio, ma anche nel più generico Illuminismo francese, con la fede che ha sempre nutrito nella capacità razionale dell’uomo. Certo, non tutto l’ Illuminismo era accettato da Bookchin come salvifico: “-l’Illuminismo del XVIII secolo aveva limiti non indifferenti, eccesso di razionalismo, meccanicismo, dualismo, ciononostante ha lasciato alla società valori ed ideali eroici.-”
Ed ancora: -” l’Illuminismo ha concepito l’idea di un interesse umano generale, contrapposto al provincialismo feudale……..
La più preziosa eredità lasciata dall’illuminismo e’ la concezione di un umanità come unità in una società libera, accomunata da ragione ed empatia-.”
Essendo intellettuale del ventesimo secolo, Bookchin è stato tra i primi ad innestare nel generico corpus dell’anarchismo libertario il concetto di ecologia, trapiantato nella pratica della società ecologica. Dobbiamo ricordare che il nostro autore viene da una tradizione culturale americana profondamente coinvolta in concetti come libertà e natura: esempio John Muir oppure H.D. Thoureau e la sua Disobbedienza Civile.
Il fascino della libertà e della natura incontaminata con cui l’uomo deve avere un rapporto paritario, vengono accettati di default da Bookchin e da tanti altri anarchici d’oltreoceano, con posizioni come il Primitivismo o la proposta provocatoria di Akim Bey. Ma Bookchin rimane legato in maniera ortodossa all’analisi sociale, bollando come” tentazioni antirazionali teistiche, antisecolari”certe manifestazioni scaturenti in seno ai movimenti femministi ed ecologisti.
Proprio il carattere ambiguo dei nostri tempi, la mancanza di identità individuale e di senso sociale, la perdita di fiducia in caratteristiche umane come il pensiero concettuale e sistematico, l’attacco diffuso contro la ragione, la scienza e la tecnologia come portatrici di soluzioni ai problemi, sono viste come matrici della condizione caotica in cui è piombata la società attuale.
Rifiutando la semplice contrapposizione tra società e natura, Bookchin afferma in primis che-” Tutti i problemi ecologici sono problemi sociali e non semplicemente il risultato di concezioni religiose, spirituali o politiche-“
L’emergere della società è un fatto naturale che trae la sua origine dalla biologia della socializzazione umana. “-I rapporti di sangue madre figlio e le cure parentali protratte nel tempo ci dicono che siamo in presenza non semplicemente della riproduzione biologica, ma della riproduzione della società stessa.-” La partecipazione il mutuo soccorso, la solidarietà, l’empatia, sono caratteristiche dei primi raggruppamenti umani, che in seguito si sono formalizzati in vere e proprie strutture sociali sempre più complesse.
L’ecologia sociale deve mostrare, secondo Bookchin, in quale momento dell’evoluzione sociale si sono prodotte queste rotture che hanno portato la contrapposizione tra società e mondo naturale.
Il trauma che ha prodotto Il dualismo società- natura, è da ascriversi all’emersione delle gerarchie nelle prime società umane. Il dominio dell’uomo sull’uomo è venuto prima dell’idea di dominare la natura.L’ ecologia sociale chiarifica come le gerarchie, in natura, sono proiezioni dei nostri sistemi di controllo sociale. In campo animale il dominante è occasionale: lo stesso termine di gerarchia, etimologicamente parlando, ha significato sociale, non zoologico; indica il livello in cui erano indicati dapprima gli Dei e in seguito le strutture del clero.
C’è un continuo forviante tentativo di individuare nel mondo naturale un carattere etico. L’intenzionalità e la volontà animale sono troppo limitate per produrre un etica.
L’ecologia sociale evita i semplicismi delle concezioni dualistiche marxiste e la rozzezza del riduzionismo ecologico, che fa tabula rasa della cultura umana. Le società organiche preletterate erano formate sul principio del “minimo irriducibile, sull’arte della persuasione, sull’ uguaglianza sostanziale ed infine sull’usufrutto”. Le risorse disponibili a chiunque ne avesse bisogno. A spezzare questo equilibrio tra pari, la logica e i dati antropologici a nostra disposizione suggeriscono che la causa sia scaturita dal prestigio accumulato dagli anziani, che appaiono essere coloro che hanno dato il via ai primi sistemi istituzionalizzati di comando ed obbedienza.
La differenziazione gerarchica, rimodellando le relazioni esistenti nelle società preletterate, ha dato origine ad un sistema di status, in anticipo all’emersione di relazioni strettamente economiche, che stanno alla base dell’analisi sociale marxista. La gerontocrazia, a giudizio di Bookchin, è stata la prima forma di gerarchia ed il primo caso in cui la conoscenza di dati, tecniche di sopravvivenza è diventato territorio esclusivo degli anziani dei villaggi. Anche il ruolo della donna, dapprima paritario, dato che molte società arcaiche erano matricentriche , vedi il culto della dea madre, è franato in posizione subalterna rispetto allo status dell’anziano saggio.
La successiva svolta storica, che incontriamo è stata l’emergere delle prime città, ambito territoriale in cui le affinità ancestrali, basate sui vincoli di sangue, sono state sostituite dal luogo di residenza e vincoli economici. “-La gerarchia è entrata a far parte integrante dell’inconscio umano, mentre le classi sociali diventano l’aspetto più rilevante di un umanità conflittuale e divisa-“.
Terza ed attuale svolta storica é quella dell’avvento degli stati nazionali e del capitalismo industriale. Tutto questo incedere storico, nota Bookchin, non è stato così lineare come sembrerebbe ad una superficiale analisi storica, ma pieno di deviazioni, di compromessi, di contaminazioni che risultano superflue in una trattazione così sommaria e rapida rispetto alla ponderosa ricerca antropologica dell’autore.
Basta, ad esempio, ricordare il bivio in cui si è ritrovata l’Europa medievale quando poteva muoversi nella direzione di una Confederazione di città stato, come avvenne nel episodio storico della sconfitta del Barbarossa ad opera delle città dell’Italia settentrionale. Per Bookchin le città italiane nel Medioevo rappresentano un esempio mirabile di come si dovrebbero organizzare i consorzi umani attraverso un consesso di municipalità In equilibrio. Durante il periodo successivo c’erano forze non irrilevanti che tendevano ad inibire lo sviluppo e l’ascesa del capitalismo, come i consorzi artigianali che privilegiavano la cooperazione rispetto alla competizione.
“-L’ideale del limite, la fiducia nella Grecia classica, nella aurea mediocritas non ha mai perso interamente la propria influenza.-”
Purtroppo la storia non si fa con i “se” e con i “ma”, sappiamo tutti com’è andata a finire. La situazione catastrofica in cui si trova il nostro pianeta, tra effetto serra e cambiamenti climatici, inquinamento dei mari, rischio estinzione per molte specie viventi, porta Bookchin a postulare che il capitalismo sia inemendabile, irreformabile, essendo intrinseca alla sua natura l’uso e l’abuso delle risorse naturali. Bisogna volgersi verso nuove, o antiche, forme di rapporti sociali. Per questo l’autore nega legittimità a quelle organizzazioni ecologiste che svolgono attività parlamentare, legittimando con questo lo Stato e le sue funzioni.
Stato che, nella riflessione dell’autore,non puo’ essere rappresentato nel Parlamentarismo perche’ “-ogni uomo normale ha competenza nel gestire i problemi della societa’ e della comunita’ di cui è membro-“.
Il nuovo programma libertario va riformato tenendo presente il più certo dei limiti del capitalismo:“- il limite ecologico che il mondo naturale oppone alla crescita incontrollata-“.
Le decisioni, in ambito comunitario, prese a maggioranza in assemblea popolare. Le soluzioni pratiche che si possono attualizzare per dar voce all’impellenza del cambiamento sono schematicamente : Orticoltura organica, acquacultura, energia da fonti rinnovabili, tecniche compostaggio e riciclo rifiuti, confederazioni di comuni, rifiuto nazionalizzazione imprese, municipalismo libertario, assemblee cittadine, economia basata su sistemi federativi a base regionale, trasporti con veicoli collettivi, attività lavorative diversificate favorenti le inclinazioni personali, produzione improntata alla qualità artigianale, impianti industriali piccoli e polivalentì, sviluppo di strumenti che permettono il risparmio del lavoro e favoriscono il tempo libero.
Nel variegato mondo dell’anarchismo americano Bookchin è figura eminente, ma anche piuttosto isolata rispetto ad altre forme di anarchia più nichiliste come il biocentrismo, che nega l’unicità e la peculiarità della collocazione umana nella natura, oppure l’Anarco- primitivismo,di impronta rousseuiana, che vagheggia il ripudio totale della tecnologia e del linguaggio.
In Bookchin la teleologia, un disegno Divino nel destino umano, è bandita, ma non un’evoluzione verso una crescente differenziazione, complessità, individualità che vede nell’umanità il suo apice. Rivoluzione partecipativa, sviluppo cosciente che, con scelte che, seppur limitate, contengono gli elementi di una libertà. L’umanità è voce potenziale della natura che si fa coscienza di sé, che si autodetermina.
Per Bookchin il biocentrismo svaluta l’attività volontaria dell’uomo e ciò è contraddittorio rispetto al fatto che l’anarchismo è intervento attivo nel mondo. L’etica ecologica afferma che la realtà è sempre formativa, ciò che può essere è altrettanto reale e oggettivo di ciò che è in un dato momento.
Da smaliziati naviganti del xxì secolo non possiamo non notare certe “forzature” intellettuali a cui l’autore sottopone la realtà sociale.
Tralasciando le continue critiche tra le varie anime anarchiche (invero soprattutto di matrice americana), incentrate sul ruolo dell’uomo nel divenire oppure sull’ingenua fiducia nel “mutuo appoggio” di Kropotkiniana memoria, il pensiero di Bookchin ha fortemente
influenzato il Movimento politico del Kurdistan Libero, che ha messo in pratica nelle sue enclaves, pur con le difficolta’ del caso, parte dei suoi dettami, in primis municipalismo e ruolo politico paritario tra uomini e donne.( Il doppio sindaco in alcune citta’ liberate).
Ma cio’ che lascia piu’ perplesso nel nostro Autore, e piu’ in generale nell’Anarchismo, e’ squisitamente filosofico: come e’ possibile tralasciare, nella disamina della genesi delle gerarchie come fattore divisivo uomo-natura, come e’ possibile, dicevo, dimenticare il ruolo del Sacro, inteso non nel senso religioso ma nell’ancor piu’ antico senso del Mistero e della Paura all’alba della cognizione umana, e come e’ possibile tralasciare l’assetto psicologico dell’uomo moderno, quello che chiamiamo Coscienza Individuale?
Paleoantropologia, cognitivismo, linguistica, filosofia del corpo convergono verso un’analisi complessa delle societa’ umane che mancano completamente nell’anarchismo, che pare rimane limitato all’ambito sociologico, pur con lo sforzo che fa rispetto al marxismo che individua nelle classi economiche il nodo del problema. A mio parere anche lo sguardo anarchico e’ miope, riflettendo in Bookchin certe infatuazioni della sua epoca, come quella della messa al bando della gerontocrazia maschile creatrice della prima
frattura sociale gerarchica.
Un altro approccio in cui il concetto di limite assume forte rilevanza,
con ricadute nel sociale di piu’ ampia portata rispetto a quello indagato nell’opera
di Nicola Chiaromonte, si riscontra nel pensiero del cristiano-anarchico Ivan illich.
Nella sua principale e conosciuta opera, La convivialita’, egli cerca di individuare
e dimostrare il limite critico oltre il quale non si ha piu’ equilibrio all’interno della
triade uomo-strumento-societa’; disequilibrio alla base della schiavitu’ umana nei
confronti della macchina, della societa’ tecnologica e del profitto.
L’uomo diviene accessorio rispetto ai meccanismi che ha messo in moto, un semplice
ingranaggio burocratico. Profetiche le parole di Illich:- “Se vogliamo poter dire qualcosa sul mondo futuro,disegnare i contorni di una societa’ a venire che non sia iper-industriale, dobbiamo riconoscere l’esistenza di scale e limiti naturali. Esistono delle soglie che non si possono superare. Infatti,superato il limite, lo strumento da servitore diventa despota. Oltrepassata la soglia, la societa’ diventa scuola, prigione, ospedale e comincia la Grande Reclusione.-”
Per evitare la grande reclusione, Illich individua la soglia da non superare nel
concetto di convivialita’.
Una societa’ sana e’ quella in cui gli strumenti siano utilizzabili dalle persone integrate
in collettivita’, e non gerarchicamente nella disponibilita’ di un gruppo di specialisti.
L’uomo a cui tende Illich non vive solo di beni e servizi, impostigli dall’alto come bisogni,
per lo piu’ fittizi, ma e’ un uomo che puo’ liberamente modellare e conformare al proprio
gusto gli oggetti che gli stanno attorno, di servirsene con gli altri e per gli altri.
Ed ancora:-“Ognuno di noi si definisce nel rapporto con gli altri e con l’ambiente e per la struttura di fondo degli strumenti che utilizza. Questi strumenti si possono ordinare in una serie continua avente ad un estremo lo strumento dominante e all’estremo opposto lo strumento conviviale: il passaggio dalla produttivita’ alla convivialita’ e’ il passaggio dalla ripetizione della carenza alla spontaneita’ del dono-”
Ad un valore di pura tecnica si sostituisce un valore etico. Con la convivialita’ si
attua l’equilibrio tra liberta’ individuale realizzata in una societa’ di strumenti efficaci.
Si procede cosi’ per il circolo virtuoso di un’ umanizzazione dell’economia di mercato che
favorisce la realizzazione dell’individuo senza creare scarsita’ ne’ bisogni imposti o fittizi.
Il terreno in cui viene coltivata la convivialita’ e’ quello dell’amicizia, della capacita’ di
confrontarsi con l’altro, in uno spazio lasciato aperto all’immediatezza, all’intimita’,
alla liberta’ dell’incontro. Per questo illich insiste sul carattere non conviviale di
istituzioni come le scuole, le carceri, gli ospedali, apparati statali volti a separare
con tecnicismi vari il “me” dal “te”.
Particolarmente efficace appare nel’autore l’analisi della secolarizzazione della societa’ occidentale, avvenuta in eta’ moderna, non in funzione di qualche perduta sacralita’, come avviene per esempio in Nietzche, ma come puntuale analisi sociologica di una compiuta trasformazione dall’uomo comune all’uomo bisognoso, intesi come categorie antropologiche.
Oggi la stragrande parte dell’umanita’ accetta senza condizioni la propria dipendenza da
beni e servizi, dipendenza chiamata bisogno, dipendenza soddisfatta da macroorganismi
che nessun rapporto hanno con l’umano, con la sua sfera emotiva.
illch osserva, nel libro Elogio della cospirazione, che le basi della moderna
civilta’ occidentale, piu’ precisamente l’idea di pace e comunita’, come essenza della
convivenza civile delle prime citta’ europee, é mediato dal cattolicissimo concetto
di Conspiratio, respiro condiviso, il bacio sulla bocca della solenne liturgia
ecclesiastica, in cui i partecipanti al culto condividevano il loro respiro nella comunione.
Con Conspiratio si pone in evidenza l’espressione somatica forte, chiara, non
equivoca, che designa il processo non gerarchico di creazione di uno spirito di
fraternita’ e condivisione.
Questo e’ il tratto autentico dello spirito europeo pretecnologico e prescientifico,
mai sorto nel mondo prima di allora.
La Conspiratio, per Illich, precede la Conjuratio, il giuramento solenne davanti a Dio,
alla base del contratto sociale delle libere citta’ medioevali.Se, come detto, il cattolicesimo e’ stato la mappa da cui ha preso abbrivio la modernita’,
e, con essa, l’organizzazione statuale, le scienze, , ed in ultima analisi
il dominio tecnorazionale, parte dei guasti sociali ed ecologici di cui
oggi diamo testimonianza, sono sottilmente evidenziati da illich, e fatti originare in una
sottesa involuzione del mandato evangelico:”Come fenomeno della storia della Chiesa, come parte dell’Ecclesiologia corrotta – corruptio ottimi qui est pessima-”
(La cospirazione cristiana nella tirannia della scienza e della tecnica-Angeli ed 2016).
illich qui trova conforto nell’antico pensiero di Gregorio Magno, “non c’é niente di peggio
della corruzione del meglio”, fulmineo paradosso che spiega senza ambiguita’ la caduta
inconsapevole, per troppo “ardore”, della chiesa rispetto al regolare la carita’, garantire
la speranza e assicurare la salvezza. Il Regno di Dio sulla terra.
Qui il pensiero di illich aderisce completamente a quello di Chiaromonte:” L’idea di accordare i due regni, l’uomo e il mondo, e’ l’errore degli errori…..(N. Chiaromonte-
Taccuini).
Dunque, per illich la Chiesa e’ responsabile della corruzione, ma non colpevole: non e’
la malafede a caratterizzare il suo mandato dal Medioevo ad oggi, ma una miope
inconsapevolezza delle conseguenze del suo operato.
La presa in carico comunitaria dei senza tetto, delle vedove, dei poveri
degli stranieri, e’ un idea che non appare in altre culture, come invece e’ stato fatto
dalla Chiesa Cattolica gia’ da molti secoli.
La Carita’, che Gesu’ dimostra nella parabola del buon Samaritano essere un atto
personale di libera scelta, viene istituzionalizzata in un mandato evangelico che ci
porta al concetto di servizio, e la nostra societa’ e’, oggi, essenzialmente una
societa’ di servizi. La stessa teologia si adatta al concetto di scopo.Da qui la
progressiva virtualizzazione dei rapporti umani mediati da organizzazioni sempre
piu’ lontane e coercitive. L’antica domanda fatta a Gesu’; “Chi e’ l’altro? L’altro e’ chi vuoi tu,,” diventa per la Chiesa : “Cosa devo fare per l’altro?“, diventando manifesto della chiesa militante.
In questo, che pare essere una innocente conversione che “razionalizza” esigenze
ed istanze di popolazioni e rapporti sociali e statuali sempre piu’ complessi, in questo,
dicevamo, si annida il primo germe di una delega che gli uomini hanno concesso
alle istituzioni ed alle organizzazioni, che hanno sempre piu’ voracemente occupato
spazi che dapprima erano prerogativa del fecondo rapporto di amicizia e fratellanza
dei consimili. Le strutture cosi’ formatesi hanno cominciato a vivere di vita propria,
ognuna con le proprie esigenze di sopravvivenza e di rappresentanza, lasciando
in un angolo i motivi per cui erano state create. Le parti sono ribaltate, l’uomo
chiede perche’ ha bisogno, non e’ piu’ pernio della sua vita.
Se pensate che il pensiero di illich sia pura utopia, giungera’ il tempo in cui le sue
parole assumeranno ben altro spessore rispetto alle certezze dell’attuale
razionalismo storicistico; mi auguro solo che non sia troppo tardi.