Per un amante della musica tout court rimane difficile condividere l’opinione espressa da Alex Ross, noto critico musicale che con la pubblicazione del suo scritto ” Il Resto e’ Rumore – Ascoltando il XX Secolo (ed.Bompiani) ” ha riscosso importanti riconoscimenti ma che rimane per parte mia una visione piuttosto miopica del vasto panorama dell’arte musicale. Alex Ross nel suo libro prende a paradigma della cultura musicale unicamente la musica Classica lasciando fuori aspetti dell’espressione artistica come il folk popolare, la canzone napoletana o la pizzica salentina per non dire della musica afro-americana. Il resto e’ rumore appunto, non meritevole di ascolto. Che poi John Cage si sia esibito facendo ascoltare una pietra che rotola legata e tirata da una corda o seduto al pianoforte con lo spartito aperto ad eseguire la partitura in tre movimenti 4’33” cioe’ la durata del pezzo in cui non una nota viene eseguita e si ascolta e ci si ascolta in sala e sul palco solo i suoni dell’ambiente e del pubblico e’ qualcosa che ad Alex Ross deve essergli sfuggito. Due artisti che di rumore ne hanno fatto tanto in senso buono intendo sono l’indimenticabile Frank Zappa ( Baltimora 1940 – Hollywood 1993) e Bob Dylan. La musica senza le parole non ha significato dice Dylan, eppure Allen Ginsberg leggeva e declamava i testi delle sue canzoni nei sotterranei del Greenwich Village come fossero componimenti poetici. I testi delle canzoni di Dylan possono leggersi come poesie ma poi vanno ascoltate cantate per quello che sono. Dylan a conclusione del suo discorso di accettazione del premio Nobel nel 2016 per la Letteratura ha detto: ” Questo e’ quello che sono le canzoni. Le nostre canzoni sono vive nella terra dei vivi. Ma le canzoni non sono letteratura. Sono pensate per essere cantate, non lette. Le parole delle commedie di Shakespeare sono state pensate per essere recitate sul palcoscenico. Proprio come le parole delle canzoni devono essere cantate, non lette. Cito da Luca Grossi ” L’ Inferno di Bob Dylan ” ed Arcana. Il dialogo con Dante nell’opera del Bardo di Duluth. Potrebbe apparire un eccesso accostare la Divina Commedia all’opera di Dylan ma leggendo le argomentazioni di Luca Grossi non si puo’ non convenire e rimanerne sconcertati allo stesso tempo. La grandezza di un artista come Dylan e’ incontestabile, rimane tale la si apprezzi o no. La stessa canzone ” A Hard Rain A Gonna Fall ” e’ un capolavoro di letteratura che Alessandro Portelli nel suo breve saggio ” Bob Dylan, Pioggia e Veleno ” ed. Saggine, analizza rivelandoci aspetti inusitati. E’ noto che durante la cerimonia dell’assegnazione a Dylan del premio Nobel la canzone che Patty Smith porto’ sul palco visibilmente commossa fu proprio A Hard Rain’s Gonna Fall , ma meno noto e’ che l’origine di questa canzone ha una antichissima tradizione orale; nasce nel Veronese italiano del ‘600 come il ” Testamento dell’Avvelenato “ e poi passata nel mondo anglosassone come testo di ” Lord Randal ” ed infine giunge in America dove e’ Dylan a vestirla di nuovo vigore e splendore facendone uno dei suoi cavalli di battaglia. Si puo’ concordare con Jean Paul Sartre quando si chiede che cos’e’ la letteratura ma di sicuro possiamo replicare che …la risposta soffia nel vento. Fin dall’inizio della sua attivita’ Robert Zimmerman, in arte Bob Dylan, ha rifiutato di appartenere, di essere racchiuso in degli schemi; scandalizzo il suo pubblico quando lascio’ l’acustica per l’elettrico. Non partecipo’ a Woodstock in quei giorni che faranno storia per non essere Leader, il capo portavoce di un popolo, la Beat Generation, il mondo della Pace e Amore libero. A Woodstock il sistema aveva organizzato un bel campo recintato con cucine e infermerie, dove per tre giorni ci si poteva illudere di essere padroni di se stessi e delle proprie idee. Nemmeno Frank Vincent Zappa prendera’ parte a quella manifestazione divenuta il simbolo di un’epoca, il movimento giovanile gia’ iniziato con il ’68 studentesco. L’ italo-americano Zappa, compositore chitarrista, prendera’ invece parte all’evento piu’ radicale dell’epoca, per gli sviluppi musicali che seguirono e che si svolse ad Amougies in Francia, dove Zappa si merito’ l’ingaggio come guest guitarrist, come maestro delle ceriminie ed avendo da poco sciolto il proprio gruppo delle Mothers of Invention era in cerca della strada da percorrere e per l’occasione ebbe modo di accompagnarsi ai piu’ variegati gruppi pop rock folk jazz; memorabile la sua collaborazione con i Pink Floyd. La musica di Frank Zappa non si puo’ definire in alcun modo. Lo stesso Pierre Boulez interprete e direttore di orchestra si chiedeva quale grande fatica dovesse essere stare con un piede in due scarpe come per Zappa tra la pop music e la classic music. In realta’ la composizione di musica classica e’ stato il punto di arrivo di tutta l’ opera di F.Zappa. Come Dylan ha avuto il suo nume tutelare in Woody Guthrie , Frank Zappa lo ebbe in Eldgar Varese, compositore tra i grandi del ‘ 900 che Zappa ascolto’ occasionalmente da un trasmissione radiofonica rimandone per cosi dire folgorato tanto gli piacquero quelle sonorita’ e soprattutto la struttura ritmica, la sezione delle percussioni; tant’e’ che con la sua prima paghetta ricevuta dai genitori corre a comprarsi un disco del maestro Varese e dopo innumerevoli ascolti maturo’ l’idea e realizzo di telefonargli presentando se stesso giovanetto interessato alla musica di Eldgar, congratulandosi per l’affascinante scrittura musicale e chiedendogli un incontro. Si dice che E.Varese non riaggancio’ in malo modo il telefono ma che con piacere avrebbe volentieri fatto la sua conoscenza ricevendolo in casa propria. Il resto e’ leggenda. Non e’ leggenda invece la scoperta nel 1980 di un Asteroide della fascia principale, asteroide 3834 che e’ stato ribattezzato 3834 ZappaFrank. Quasi un Nobel.
Vista l’importanza e l’attualita’ del problema dell’autodeterminazione del popolo curdo e del suo legame con l’Anarchismo, in specie tra il capo politico Ocalan e il pensiero di Murray Bookchin, apriamo questo spazio particolare per scrivere,commentare, testimoniare questo ultimo tentativo di creare una societa’ basata su uno dei cardini piu’ importanti dell’Anarchismo, cioe’ il municipalismo e il ruolo paritario tra uomo e donna nella societa’
QUALCHE PROBLEMA CON BOOKCHIN Tutto bene di Bookchin quando si parla di gerarchie, ecologia sociale o forme applicative nel municipalismo libertario, ma é poco condivisibile la sua visione positiva e un po’ fideistica sulla scienza . Credo sia un rimasuglio dell’ illuminismo settecentesco. Daltronde la tradizione anarchica si rifà nella sua radice piu remota ai fondamenti della rivoluzione francese. Ma finché ci riferiamo ad allora é più che giustificata come posizione. Che Bookchin, uomo che ha varcato la soglia del terzo millennio, non approfondisca e non discrimini a sufficienza fra conoscenza e deleteria scienza applicata può essere un motivo non secondario di distanza. La generazione degli anni 70 aveva ben compreso il problema. In quegli anni dopo il bagno di “folla” si tornava alla terra e, perlomeno in forma attiva e rinnovata, al recupero delle tradizioni contadine ed artigiane. Erano scelte spesso radicali, sicuramente dei giovani più illuminati. Questi erano consapevoli di lottare in tal modo contro il sistema distruttivo ed egemonico delle scienze applicate e delle tecnologie. E queste scelte erano fatte a costo di abbandonare carriere e studi scentifici . Era chiaro il nemico chi fosse. E questo ancor più quando la sensibilità ecologica era alta. Non c é bisogno di ricordare che l energia nucleare sia di pace che di guerra rappresentava da circa 30 anni l apice della scienza applicata e della tecnologia. Bookchin significava molto per noi giovani di quella generazione ma cedeva su questo punto e cioè che non c é mai una scienza buona quando essa viene applicata. Può esserlo per un periodo ma il potere userà quell avanzamento per i propri fini che sono inderogabilmente sempre i peggiori. Oggi abbiamo guerre con armi terribili, abbiamo ordigni nucleari finali per il pianeta, abbiamo un avvelenamento dell aria e delle acque di superficie perché la chimica ha lavorato bene e ciò vale anche per un pianeta che scoppia di ftalati derivati dalle plastiche e nocivissimi alla salute dei viventi. Le grandi scoperte della sanità sono in particolare in campo interventistico che oggi si avvale di sistemi di visione a sonda che sono stati studiati in origine per fini militari cioè per amazzare il più possibile. Anche l ingegneria sanitaria per protesi e sistemi adiuvanti la mobilità é frutto di enormi risorse che gli stati hanno devoluto, in primis gli stati uniti, nella ricerca per i veterani mutilati. Gli stessi che avevano distrutto un paese come il vietnam del nord. La stessa robotizzazione in campo chirurgico, una delle promesse maggiori nella sanità, é frutto della ricerca militare americana. Serve infatti a sostituire i soldati per ammazzare senza rischio.Anche la creazione del web é avvenuta pro manu militari. Oggi possiamo comunicare da una parte all altra del pianeta con facilità per la presenza di satelliti. Quegli stessi che permettono ai droni in Irak o in altri “teatri” di guerra di piombare su un villaggio ed ammazzare intere famiglie comandati da una mano a 10 mila km di distanza. Una delle cose che non condivido di una parte cospicua della tradizione anarchica é questo salto logico. Molto frequente anche nei dottrinari di quel pensiero. Cioè: è quello stesso potere che si vorrebbe abolire o per lo meno diluire il più possibile che ha prodotto uno sviluppo scientifico che l anarchico di tradizione reputa benefico, quando l avanzamento delle scienze nell ultimo secolo é stato possibile solo per la capacita concentrazionaria di risorse economiche di quello stesso potere tanto odiato. Cioè quando la ricerca scientifica si é fatta complicatissima perché dipendente dalle tecnologie avanzate solo enormi risorse e istituti asserviti al potere potevano reggere. Non era più il tempo dell intuizione di una bella testa pensante che con pochissima tecnologia e qualche buon artigiano scopriva dal telescopio al vaccino di Jenner. Un ulteriore effetto deleterio di questa egemonia scientifico tecnologica é stato sulla psicologia delle masse. Il “dio che é morto ” é stato sostituito da una nuova deita’. Quella del corpo degli scienziati ormai chiamati ovunque a mettere l ultima parola su questioni umane, esistenziali, sociali, insomma tutt altro che scientifiche. Ma il deus scienzologo può sempre entrare a gamba tesa a condannare dal suo pulpito. E noi poveri fedeli di questo nuovo dio accettiamo di buon grado, pena l ostracismo. Per finire, che proprio gli anarchici ci siano cascati la dice lunga su quanto possano essere ingenue tante anime belle. Il post anarchismo é dovuto per ciò nascere come una necessità. Quando il semplicismo giacobino ha incontrato nel 900 l’esistenzialismo. É un parere del tutto personale perciò mi fa piacere discuterne. Cioè quando il rispetto delle libertà individuali e quindi l autodeterminazione dell individuo doveva passare da una lotta urlata ad una consapevolezza interiore fatta anche di profondi silenzi. Attraverso cui matura la propria individualità, capacità di scelta ed intelligenza personale. L individuo diventa cosi individuo vero e non semplicemente formalizzato in una cornice di pensiero. Sia esso anarchico sia esso liberale. Il post anarchismo da’ qualche speranza per una opposizione radicale all’ egemonia della razionalità.
L‘uomo si frammenta nel suo ciarlare sulla vita o su una realtà di cui non possiede e non possiederà mai le forme. Quando l’ uomo si fa filosofo illusiona se stesso mascherandosi da cogitante e allisciandosi il pizzetto. Poca trippa carissimi. Il dissidio fra Nicola Chiaromonte e Andrè Malraux, per altro ottimi amici e compagni d’arme contro Franco In Spagna, si svolgeva tutto in questo piccolo cortile: Malraux che era l’ esempio vivente dell essere nel fare, la realizzazione del sè nell’ immersione nella vita spesso spericolata sempre avventurosa, Chiaromonte che criticava tale approccio iperattivista cercando, secondo una linea filosofica più classica che mai, un riscontro dei fatti nel pensiero. Il dramma di quest’ ultimo è che se da una parte era condannato all’ uso del verbo per condurre la sua linea esplicativa, dall’ altro era decisamente disilluso sulla capacità delle parole di rappresentare la realtà. La contraddizione si incrociava ulteriormente con un atteggiamento analogo che però aveva proprio il Malraux, per il quale l ‘uomo non aveva alcuna capacità di comunicazione con l’ altro, quindi affliggeva anch’ esso la potenzialità del verbo. E’ un intreccio che potrebbe essere un discreto oggetto di ironie sottili. Pensare cioè che entrambi sconfortavano l uso delle parole ma ne avevano fatto in tutta la loro vita la propria professione come vocazione. Nicola Chiaromonte scrisse tanto e fu uno dei più profondi e originali critici di teatro, Malraux scrisse anche tanto (vinse anche un prestigioso premio Goncourt) ma sempre in questa sconcertante diffidenza verso la parola. L’impressione è che, per tornare al nostro, Chiaromonte riuscisse a trovare per la sua intelligenza una area pneumatica intermedia in cui riuscire a respirare vivere lavorare. Consapevole di quanto fosse improbabile il suo esistere a mezz’ aria. Chissà se la sua passione per il teatro fosse legato a questo. Ciao.
Ezma è una bambina di quasi quattro anni. E’intelligente, vivace, curiosa; è una bimba minutina con i capelli neri e due codini fissati in cima alla testa con due fiocchetti bianchi. Ezma è di una famiglia di Yezidi che vivevano a Shengal (Nord Irak). Durante l’agosto del 2014 sono dovuti scappare dalla furia omicida di quei mostri dell’Isis\Daesh: La loro città è completamente distrutta e da allora, insieme a tanti altri come loro, vivono in campi profughi, prima in Turchia, poi in Irak. La loro casa ora è una tenda. Chissà se Ezma ricorda come era la sua casa o una casa qualunque. Forse qualche vago ricordo ce l’ha ma per fortuna i bambini si adattano più facilmente degli adulti alle nuove situazioni, anche difficili e apparentemente non sembrano risentirne troppo (anche se poi nel profondo non sappiamo cosa succede). Ho conosciuto Ezma nel marzo 2015 quando sono andata a Urfa (Sanliurfa per i Turchi) insieme ad altri membri di una delegazione per il Newoz (Capodanno di origine iranica che per i Curdi ha un alto valore simbolico e identitario) e che oltre ai festeggiamenti per noi è anche occasione di incontri con persone e associazioni della società civile e politica. Quest’anno in più c’erano i profughi. Questo piccolo campo dove alloggia(va)no poco più di duecento persone (dopo la liberazione di Kobanè chi poteva se ne era già andato o era in procinto di farlo) è stato allestito dal Comune di Viransheir (cittadina di circa ottantamila abitanti nella provincia di Urfa). Come tutti i Campi è un po’ squallido, isolato in mezzo alla campagna con le tende allineate in più file ma con le “strade” lastricate (altri campi a Suruch, per esempio erano in mezzo al fango e polvere). Inoltre c’è una tenda cucina,un’infermeria e due tende scuola: una piccola per i bimbi dell’asilo e l’altra più grande per i ragazzi fino ai 14 anni. Insegnanti vengono dalla città vicina e insegnano in Curmanci, lingua curda che in Turchia è proibita ma che nell’Irak curdo è la lingua ufficiale. Questa tenda scuola è abbastanza ampia ed è usata anche come sala riunioni. La co-sindaca di Viransheir inoltre si vanta di aver fornito acqua calda per tutti. C’è poi un campetto da calcio. Ma la vita è molto monotona specialmente per gli uomini che hanno perso il lavoro senza possibilità di trovarne un altro dato che anche qui la disoccupazione raggiunge percentuali altissime. Quando siamo arrivati al Campo, eravamo circa venti persone, Ezma girava da sola mentre in genere i bambini stanno in gruppo. Ed è successa una cosa incredibile: come ci ha visto, la bambina si è avvicinata e ha messo la sua mano nella mia. Mi ha scelto fra tutti. Un momento l’ho lasciata per fare delle foto e un’altra del gruppo l’ha presa per mano ma appena ho finito lei è tornata vicino ed è stata sempre con me per tutto il tempo che siamo rimasti al Campo. Mi ha seguito in una tenda dove ci aveva invitato una famiglia a raccontarci la loro storia e prendere il tè ed è stata sempre in braccio a me. Ezma è anche molto curiosa: voleva vedere come funziona la macchina fotografica e ha scattato diverse volte, ha vuotato tutta la mia borsa per guardare quello che c’era dentro e poi….ha rimesso tutto a posto – cosa che altri bambini non avrebbero fatto probabilmente – e questo mi ha fatto pensare che i suoi genitori le hanno dato comunque una buona educazione. Ezma è un folletto. Gira dappertutto e ovunque e con chiunque si sente a suo agio, come se fosse sempre vissuta lì. Il Campo è la sua casa e il suo mondo dove si muove con molta disinvoltura. Tutti la conoscono e le sorridono e lei ha l’aria di essere la beniamina di tutti. Quando ce ne siamo andati ha pianto e a me si stringeva il cuore. Ormai mi aveva conquistato completamente e non potevo lasciare che la cosa finisse lì come in genere succede in questi incontri: ci si trova bene con le persone, si creano simpatie ed empatie e poi si riparte e tutto finisce. Raramente capita di ritrovare ancor qualcuno in un viaggi successivo e i rapporti restano comunque sempre superficiali.
In viaggio.
Così prima di ripartire per l’Italia mi sono unita a un altro gruppo che si recava a Viransheir e sono tornata al Campo per rivedere Ezma e cercare di stabilire un rapporto meno precario e se possibile duraturo. Quando siamo arrivati io ero un po’ indietro ma l’interprete mi ha poi detto che appena ci ha visto arrivare Ezma che era corsa lì davanti a tutti, ha chiesto subito “Dov’è la mia amica?” Appena mi ha visto mi è corsa incontro con il suo bel sorriso ed è stata quasi sempre con me anche quando eravamo nella “sala riunioni” ad ascoltare i racconti drammatici delle persone scampate alle aggressioni dell’ISlS grazie al salvataggio dei guerriglieri del PKK. Intanto la notizia di questo rapporto speciale tra me e la bambina si era diffusa nel Campo ed era per me doveroso andare a conoscere la famiglia..La loro tenda era tra le più povere: invece dei tappeti avevano solo un telo di plastica sul pavimento e i materassi per la notte appoggiati alle pareti. Così ho conosciuto il padre Elyas che lavorava come poliziotto, o più probabilmente vigile urbano, a Shengal e oltre alla casa distrutta ha perso anche il lavoro. Ha l’aspetto di una persona molto provata, con lo sguardo triste, quasi assente. Sembra abbastanza più anziano della moglie (ma in seguito ho scoperto che lui ha solo 42 anni!) che nonostante i numerosi figli è ancora una donna piacevole. Di figli ne hanno 10, il maggiore di 17 anni lo hanno mandato da uno zio in Germania e là sperano di andare tutti quanti: poi ci sono altri tre maschi e sei femmine un po’ di tutte le età. Ezma è la più piccola e tra lei e la penultima c’è uno stacco di tre o quattro anni. Forse non l’aspettavano più. Sono tutti bambini molto belli , Meruha, (dieci anni) ha degli occhi grigi stupendi, unica in tutta la famiglia, chissà da quale antenato ha ripreso! ma Ezma ha una marcia in più perché è la più sveglia e simpatica. Osman, un ragazzo di Viranshehir che ci ha accompagnato al Campo insieme alla sindaca, ci ha fatto da interprete. Non sa molto bene l’inglese ma si fa capire e capisce. Ho detto che intendo seguire la bambina e sono disposta ad aiutare la famiglia per quanto mi è possibile, l’importante è non perdere i contatti. Naturalmente nella tenda non è mancata l’offerta del tè, un rito a cui neanche i più poveri si sottraggono e sarebbe una grave scorrettezza rifiutare. Quando me ne sono andata è stato un distacco molto triste. Chissà se e quando avrei rivisto Ezma : la vita per i profughi è così precaria e da questo Campo già diverse persone erano partite e altre stavano per farlo: chi può torna alle proprie case specialmente chi viene da Kobanè che per quanto bombardata è ora libera, ma Shengal è in mano all’ISIS. Per un po’ di tempo ho tenuto i contatti tramite Osman, poi un giorno mi ha fatto sapere che la famiglia era tornata in Irak dove il padre aveva ancora interessi e questioni da risolvere, ma a Shengal non potevano tornare per cui sono stati costretti ad andare a vivere in un altro campo profughi allestito dal governo curdo iracheno (Sud Kurdistan) , non lontano dal confine con la Turchia. . Per fortuna ho avuto il numero di cellulare di Elyas e sono riuscita a farci parlare un mio amico curdo. Infatti uno dei grossi problemi di comunicazione è la lingua: loro non parlano inglese e io non conosco né il curmanci (lingua curda) né l’arabo. L’occasione per rivedere Ezma è stato in luglio quando sono tornata in Kurdistan per il matrimonio della mia amica curda Pervin a cui non potevo né volevo mancare. Dopo la festa che si è svolta a Nusaybin sono partita alla volta del Campo di Sexan o Scekan nei pressi della cittadina di Duhok ,(Nord Irak o Kurdistan Iracheno) Mi sono avventurata da sola sottovalutando le difficoltà . Avevo preso un biglietto per Silopi, ultima città nella Turchia ma la frontiera non era così vicina come credevo e così mi hanno ampiamente fregato sul costo del viaggio facendomi cambiare mezzi di trasporto non necessari e conseguenti richieste di soldi in più. Donna, straniera per di più europea, sola, senza conoscere la lingua, un vero pollo da spennare! Ma intanto ero arrivata a Duhok dove, previ accordi telefonici, ho incontrato Ezma con il padre e un autista che mi aspettavano lungo la strada in un posto stabilito. L’incontro è stato emozionante, rivedere Ezma è stata una grande gioia e da come mi guardava ho capito che era così anche per lei. In quattro mesi era cresciuta un po’, sempre magrolina e aveva i codini più lunghi; mi ha accolto con il suo bellissimo sorriso e il suo sguardo vivacissimo. Non mi aveva dimenticato, si stringeva a me ed ha voluto subito venirmi in braccio. Anche in macchina, nel tragitto per arrivare al Campo, mi è sempre stata vicina, mi guardava e sorrideva felice. Il Campo di Shexan è sotto la direzione del governo curdo iracheno, è recintato ed ha un unico ingresso controllato dalle autorità del Campo, mi è parso abbastanza rigidamente. Mi hanno detto che ospita circa cinquemila persone, in massima parte Yezidi per lo più fuggiti da Shengal. Il Campo è molto grande, isolato in una zona desertica dove non si vede una pianta, neanche un cespuglio a perdita d’occhio e non è poi tanto vicino alla città di Dohuk come pensavo. I Campi profughi che avevo visto in Turchia, gestiti dalle municipalità curde o autogestiti erano aperti e le persone erano libere di andare e venire come volevano. Comunque da qui pochi escono: dove potrebbero andare se non sono motorizzati? Sono rimasta al Campo due giorni e ho dormito nella tenda con la famiglia. In realtà le tende sono due, visto che la famiglia è molto numerosa, disposte una di fronte all’altra con il lato anteriore aperto e tra le due c’è un corridoio di sassi largo meno di un metro e coperto da un telo. Come in quasi tutte le tende c’è un condizionatore d’aria (qui fa molto caldo in estate, di giorno credo che si superano i 43 gradi) e questo è l’unico “lusso” insieme ad un piccolo televisore. I bagni sono fuori, in comune con le tende vicine e sono quanto di più squallido abbia mai visto. Due o tre bagni attaccati, poco più di un metro quadrato l’uno, con un rubinetto a circa 30 centimetri dal suolo, in un angolo un buco largo poco più di dieci centimetri e il pavimento in cemento è molto irregolare per cui l’acqua ristagna e non scorre (in confronto il bagno “alla turca” è raffinato.) Unica suppellettile un chiodo attaccato al muro. Ho evitato di fare la doccia visto che stavo poco tempo, ma avrei trovato grande difficoltà ad adattarmi. E’ vero che loro non sono abituati ad avere tutte le comodità che abbiamo noi, ma quelli che hanno costruito il Campo potevano essere un po’ più attenti alle necessità di chi è costretto a restare qui chissà quanto tempo. Di fronte ai bagni, dal lato opposto del rettangolo formato da quattro tende, c’è una cucina, aperta e in comune tra il gruppetto di tende che formano questo piccolo “isolato”. Così si creano piccoli nuclei familiari abbastanza indipendenti e relativamente isolati. Ci sono poi le strade principali abbastanza larghe e polverose che quando piove diventano un pantano anche se qui non credo che piova molto spesso. Abbastanza vicino all’ingresso c’è l’infermeria che funziona solo di mattina con cinque medici che si alternano. C’è un campetto da calcio dove i ragazzi che lo desiderano possono fare una partitella la sera, ma non mi risulta che ci sia un luogo in cui riunirsi o altre strutture per tutte queste persone. Ritengo molto grave il fatto che non ci sia la scuola (a quanto mi risulta. Ci sono volontari all’interno del campo che fanno animazione, o forse scuola, con i bambini) Qualcuno ha messo su un negozietto di generi di prima necessità, con pochi clienti a dire il vero. Lo squallore è totale e l’inedia a cui le persone sono costrette è terribile specialmente per i ragazzi che non avendo niente da fare passano le giornate sdraiati a guardare la televisione; non studiano, non leggono, non lavorano, non aiutano “in casa” e così si impigriscono sempre più con conseguenze che potrebbero essere gravi se questo stato persiste a lungo. Per le donne è diverso: fin da piccole aiutano la madre nelle faccende comuni come tenere in ordine e pulita la tenda, guardare i bimbi più piccoli e poi lavano, rammendano, cucinano… anche loro hanno ore vuote ma almeno possono sentirsi utili. La antiquata mentalità tradizionale impedisce agli uomini di occuparsi di faccende domestiche. Le bambine comunque e le donne in genere sono molto più vivaci e meno rassegnate dei maschi. Per gli uomini è comprensibile: hanno perso il lavoro che spesso si identifica con la dignità, per i ragazzi è ancora peggio come già accennato. Pur essendo il Campo molto vasto la gente si muove poco e resta per lo più circoscritta alle tende vicine o a quelle di amici e parenti. Quasi hanno timore di avventurarsi “più in là”, o almeno questa è stata la mia impressione. Prima di venire avevo chiesto un interprete ma il ragazzo che doveva farlo conosceva l’inglese come io il tedesco: non lo capivo e non mi capiva (anche se parlavo molto lentamente), ad ogni domanda rispondeva “no problem” per cui non sono riuscita ad avere risposte alle molte domande che avevo in mente e questo resoconto è solo il frutto delle mie parziali osservazioni. Poco dopo il mio arrivo è venuto un signore, non so se arabo o curdo, che aveva l’aria di un boss e mi ha fatto molte domande in buon inglese. Mi ha chiesto tutti i miei dati, voleva sapere perché ero lì, preoccupato che fossi una giornalista e mi ha imposto di non fotografare, di non fare domande e soprattutto di non interessarmi o parlare di politica. Alcune domande volevo fargliele io ma appena saputo quel che voleva se ne è andato senza salutare. Poco dopo mi hanno chiamato i responsabili del Campo per vedere il mio passaporto e registrarmi (e questo è normale) ma anche loro temevano che fossi una giornalista e hanno ribadito che non dovevo fare fotografie, eccetto alla famiglia, ma il colloquio è stato molto breve a causa della lingua. Notizie importanti quindi non ne ho avute, ma di foto alcune sono riuscita a farne. Questa insistenza – quasi paura – che fossi una giornalista e volessi parlare di politica forse è dovuta al fatto (ci ho ripensato in seguito) che il Campo è gestito dalle autorità curde irachene e loro non sono contenti che la gente dica di essere stata salvata dai guerriglieri del PKK e YPG, come avevano detto apertamente e con immensa gratitudine al Campo di Viransheir. Infatti nonostante i guerriglieri del PKK e i peshmerga irakeni combattano insiemi contro l’ISIS, c’è rivalità tra loro più che altro a livelli di comando: il governo curdo irakeno non vuole ammettere la superiorità dei guerriglieri e cerca quindi di minimizzare il valore e l’importanza del loro Non so cosa si aspettasse da meintervento soprattutto se messa in relazione con la fuga dei peshmerga che, a Mosul, sono scappati quasi senza combattere e lasciando le armi pesanti agli uomini dell’ISIS. Ho visto un filmato su Shengal con tutta la città rasa al suolo. Mentre lo guardavamo Elyas aveva le lacrime agli occhi. Chissà quante volte lo avrà visto e rivisto.. Deve essere terribile perdere tutto e da una vita normale trovarsi in uno squallido campo profughi con la responsabilità di una famiglia così numerosa. Tramite il signore che parlava inglese mi ha chiesto aiuto per andare in Germania dove è già il figlio maggiore e dove spera che ,almeno, i figli potranno studiare. Non so cosa si aspettasse da me, certo io non ho alcun potere. Ho portato quanto potevo, forse meno di quanto si aspettavano ma per me era il massimo. Per tutti loro l’Europa e la Germania in particolare è vista come una nuova terra promessa dove le persone stanno tutte bene e sono ricche ! Speriamo che non abbiano troppe delusioni quando (e se) riusciranno ad andarci. Una cosa che mi è parsa strana è la domanda che mi è stata fatta due volte: cioè se volevo portare via con me la bambina. Ho sempre risposto che assolutamente no, Ezma non è orfana, ha un padre una madre tante sorelle e fratelli e sradicarla dal suo ambiente non avrebbe senso. Io voglio restare in contatto con lei (e la famiglia) aiutare per quanto posso ma portarla via no, non ci ho mai pensato (anche se mi piacerebbe tenerla per un po’ di tempo) Non ho capito se la domanda nascondesse un timore o un desiderio. Dalle espressioni non ho capito niente come non mi è chiaro se la domanda fosse partita dalla famiglia o un’idea dell’interprete o del “boss” Al Campo mi sono affezionata anche alle sorelle di Ezma: Sonia 8 anni (forse la più bella), Meruha 10 (con la faccia tonda come la madre ma con magnifici occhi grigi, l’unica in famiglia), Wanech 12 (mi è sembrata la più intelligente), Frida 14 ( in bilico fra l’infanzia e l’adolescenza) tutte carine, affettuose, allegre e simpatiche e la più grande Inas che a 16 anni già sembra una donna fatta, aiuta molto la madre e non si unisce ai giochi. I maschi, 9, 13 e 15 anni quasi non mi hanno rivolto uno sguardo e a parte Yussuf, il più piccolo, quando sono partita non mi hanno nemmeno salutato. Le bambine mi stavano sempre intorno ed è incredibile come i mezzi di comunicazione non verbali sono comunque efficaci, loro parlavano, parlavano io qualche volta intuivo, qualche volta no ma andava tutto bene lo stesso. Wanech mi ha fatto fortemente capire che desiderava la portassi via con me e questo la dice lunga quanto -in fondo- sia sentito pesantemente il disagio di questa vita innaturale e senza prospettive. Un piccolo particolare mi ha colpito. In marzo avevo messo al collo di Ezma un fazzolettino celeste, poco dopo non lo aveva più. Avevo pensato che lo avesse lasciato cadere da qualche parte, come fanno spesso i bambini senza neanche accorgersene o senza dargli importanza. Invece , con meraviglia, lo ho ritrovato al Campo in Irak, se lo passavano da una sorella all’altra, e lo mettevano al collo o in testa, e lo tenevano come un oggetto di valore. Per passare il tempo e farle divertire cercavo di inventare qualche gioco ma avevo poca fantasia e non sono andata molto più in la di qualche girotondo ma loro erano contente e ridevano. Quando si ha poco basta pochissimo per divertirsi e la novità della mia presenza era sufficiente a creare un piacevole diversivo nella monotonia della vita quotidiana. Oltre alle sorelle venivano spesso le bimbe delle tende vicine. Ezma naturalmente era sempre la privilegiata. Non mostrava gelosia se le sue sorelle mi abbracciavano ma quando due bambine di circa la sua età si avvicinavano troppo a me, le cacciava anche dando loro delle botte. Ezma è la più piccola e quindi un po’ viziata, se qualcosa non le sta bene e se qualcuno la sgrida anche leggermente si adombra o si mette a piangere. Però dura poco perché ben presto prevalgono la sua naturale allegria e vivacità. Durante le ore più calde (pir germer = molto caldo in Curmancj) almeno 43-45 gradi, quasi non ci si muove dalla tenda ma poi nelle due giornate sono andata con Ezma e Fedha a trovare una fami glia di parenti che mi hanno accolto nella loro casa-tenda e ci sorridevamo continuamente ma purtroppo senza poter comunicare diversamente. Il pomeriggio del secondo giorno siamo andate dal lato opposto del Campo dove sono altri parenti e|o amici e lì c’era un bel po’ di gente: donne di tutte le età e tanti bambini che mi stavano sempre intorno e hanno voluto parecchie foto. In un’altra tenda abbiamo incontrato una coppia giovane con due bambine piccole e una terza in culla nata lì al campo, che ho fotografato insieme al padre ma la madre, una bella ragazza giovane (che non portava niente in testa) non ha voluto che la riprendessi. C’era poi un ragazzo che il giorno dopo doveva andare all’università (dove non so) per dare un esame di inglese. Ho visto il libro, era molto elementare. Lui però, giustamente, era molto preoccupato. Se l’avessi visto prima avrei potuto aiutarlo un po’ ma chissà se avrebbe accettato, qui sono tutti molto schivi e preferiscono offrire piuttosto che accettare. Addirittura la madre di Ezma (Bashin Hoja) mi ha offerto spazzolino e dentifricio! Nonostante il Campo di Shekan sia molto più esteso di quello di Viransheir, o forse proprio per questo, Ezma e gli altri bambini sembrano meno liberi. Ezma che nell’altro Campo girava sola liberamente dappertutto, qui si allontana appena dalla tenda e mai da sola. Forse i suoi genitori temono che possa andare troppo lontano ma apparentemente non ci sono pericoli. Tuttavia sembra esserci “una legge non scritta” che regola e limita i movimenti. Mentre passeggiavo con Fedah perché volevo vedere un po’ più del Campo a un certo punto quasi implorandomi mi ha preso per un braccio e mi ha fatto capire “qui no” ed è voluta tornare indietro. Non ho capito il motivo ma l’ho accontentata. Mi rifiuto di pensare che possano esserci rischi di violenze come mi è stato riferito di un altro Campo (violenze da parte delle autorità che qui sembrano poche persone che restano a controllo dell’ingresso). La partenza è stata molto triste, con Ezma che non si voleva staccare da me e io che mi sentivo un peso allo stomaco pensando alla difficoltà di rivederci. Il viaggio di ritorno è stato quasi un’Odissea. Con la macchina del solito amico siamo partiti verso le 8 per andare a Z., città un po’ più lontana di Dohuk ma dove ci sono autobus diretti per Dyarbakir. Durante il percorso la macchina si è bloccata e abbiamo perso un’ora e mezzo così l’autobus era partito e il successivo era alle 5 del pomeriggio (arrivo previsto 10 di sera) ma alla frontiera Irak-Turchia siamo stati fermi per oltre 5 ore con lunghissime attese tra un controllo e l’altro. Solo il giorno dopo (26 luglio) ho saputo che c’erano stati attentati dell’ISIS e aggressioni da parte dei militari turchi e conseguenti reazioni dei curdi a Diyarbakir e in altre località. Di lì a poco la città di Cizre (che ho attraversato con l’autobus e dove ero già stata nel 2007 e 2011) sarebbe stata oggetto di distruzione e atrocità indescrivibili da parte dei turchi verso la popolazione civile. La guerra non dichiarata ma feroce era cominciata e dura ancora. Non ho più rivisto Ezma. Ogni tanto riesco a mettermi in contatto (indiretto) con il padre, hanno tentato di avere il permesso per andare in Germania e per questo sono stati ad Ankara (non ho capito perché il permesso deve venire dalla Turchia dal momento che loro appartengono allo stato iracheno) ma sono tornati indietro e ancora aspettano. Intanto nel Campo la vita continua monotona e squallida. C’è un loro amico, o meglio compagno di campo, da cui ogni tanto ho notizie tramite face book anche se non sempre il suo inglese è del tutto comprensibile. Da lui ho qualche notizia sulla vita del campo. , ad es. lui, che ha dovuto interrompere gli studi , ha avuto l’incarico di intrattenere i bambini dell’asilo, ma solo per tre mesi, ora il breve contratto è finito. Lì il caldo arriva presto ma l’elettricità funziona poco, i controlli delle autorità sono sempre più rigidi. Quindi la vita è ancora peggiorata e le speranze di averne una migliore diminuiscono. I residenti si trovano in una situazione sempre più insostenibile, vivono in un campo profughi che si sta trasformando in prigione a cielo aperto . D’altra parte è impensabile che questa famiglia tenti di arrivare Europa con barconi o altri mezzi di fortuna con tutti questi figli adolescenti. Mi sento molto triste , vorrei fare qualcosa ma non so che né come., vorrei avere tanti mezzi per dare una mano e aiutare ma sono legata qui e non posso neanche andare a trovarli e portare con me Ezma e una delle sorelline………. Recentemente ho avuto una foto di Ezma (loro scrivono Asma) che ormai ha circa otto anni: è talmente cambiata da essere quasi irriconoscibile. Il suo sorriso aperto e luminoso è sparito lasciando il posto a uno sguardo triste e diffidente. Mi è venuto da piangere.