di Massimo Chiucchiù
Il carattere di grande precoce, che lo definisce, opera quel fraintendimento a cui è andato incontro Max Stirner nei confronti dei suoi contemporanei che perdura anche oggi, alla presenza di un’agiografia piuttosto corposa che ha fatto riprendere l’interesse per questo pensatore tedesco, trovatosi suo malgrado al centro di una nutrita serie di interpretazioni ognuna divergente dall’altra. Come in un test di Rorschach ognuno vi proietta quello che è il suo pensiero, ipotesi lievemente comica se si comprende il fatto che quello che è più importante nel suo discorrere è proprio ciò che non è detto, che è celato. E quindi è tutto un florilegio di soccorritori
che vanno da un tizio che poi ci fonda su un partito fascista, un altro che è ideologo di qualche bomba intelligente, un terzo che ne fa professione di veggenza profetica, non mancando naturalmente l’uso di bignamino dell’anarchismo più spicciolo e casalingo.
Per dissipare la nebbia ideologica che ha impedito di capire la portata più autentica del suo “Unico”, bisogna seguire quel filo di Arianna steso lungo il tortuoso percorso della sua opera, oltre le citazioni e i confronti con le filosofie altrui, oltre le invettive contro ogni forma di sacro, per approdare infine all’ “essenza”(scusami Max) delle sue intuizioni: l'”Unico” è il frutto cosciente, deliberato, perpetrato e ricercato di oltrepassamento di qualsiasi forma di oggettività e soggettività del cogitare umano.
Il rifiuto di qualsiasi forma di dualismo.
Tentativo perfettamente riuscito. Il nostro non si nasconde proprio, lo dice a chiare lettere, è che siamo noi, imbevuti di dogmi, a non accorgercene :
<Come si può voler sostenere della filosofia che abbia portato libertà, dal momento che non ci ha liberati della schiavitù dell’oggettività(l’Unico e la sua proprietà pag.239)
<Quando Fichte dice: l’Io è tutto, sembra che ciò si armonizzi perfettamente con quello che enuncio io. Non è vero che l’Io è tutto: è vero solo che l’io distrugge tutto, e soltanto l’io che dissolve se stesso, l’io che non è mai Essente, l’io finito, è veramente io. Fichte parla dell’Io assoluto, io invece parlo di me, dell’io caduco.(ibid.pag.457)
Tutto il tentativo di Stirner si può condensare in questo navigare oltre le colonne d’ercole del pensiero occidentale, nel tentativo di superamento della dualità del cogito. E lo fa con una nave logora, l’unica a disposizione, chiamata linguaggio, su su fino alle terre estreme dell’indicibile.
Le parole logore del suo tempo ,come del nostro, riempite dall’uso che ne hanno fatto i vincitori ,parole significanti e incontrovertibili, parole toccate dal sacro.
A loro Stirner contrappone parole vuote o esecrabili, non toccate dal fuoco della Verità, come unico, egoismo, godimento, potenza, proprietà, quelle scartate dagli illuminati di ogni epoca, non toccate dal significato.
Parole che “fanno prudere le mani”, come ebbe a scrivere Carl Schmitt a proposito di Stirner:
>.I suoi sofismi verbali sono insopportabili, l’eccentricità
avvolta in fumo di sigaro della sua bohéme da osteria è nauseante.
Eppure Max sa qualcosa di molto importante, sa che l’io non è oggetto di pensiero.
Così ha trovato il titolo più bello ed in ogni caso più tedesco di tutta la letteratura tedesca: l’unico e la sua proprietà. In questo momento Max è l’unico che mi fa visita nella mia cella. Questo, da parte di un egoista rabbioso, mi commuove profondamente.>
Si, Schmitt riporta alla luce quello che troppe volte è stato celato, l’aspetto psicologico del pensiero stirneriano, l’incitamento continuo all’introspezione, l’empatia rabbiosa di chi vede occupati dalla Verità assoluta gli spazi più intimi dell’io, la sostanziale incomunicabilità del suo pensiero che puo’ essere trasmesso solo dall’esempio, nel farsi individuale di ogni coscienza autofondantesi, in un procedimento che ricorda molto il buddismo e il taoismo.
Ognuno ha la sua strada, “la verità è una terra senza sentieri”, il tuo sentiero te lo devi cercare da solo.
In fondo nulla di cui stupirsi, ricordiamo che Stirner appartiene alla frangia degli Hegeliani di sinistra, vera fucina di ideologie che cambiarono il corso della storia, il cui accento è sempre rivolto verso la cura dei più miserevoli della società ,visti come classe operaia o cittadini dello stato oppure come singoli contro la gerarchia della Verità come nel caso del Nostro.
Se il suo contributo corrobora la triade della successiva filosofia del sospetto, licenziando ogni pretesa metafisica(ironia della sorte, Nietzche nasce lo stesso anno, il 1844, dell’uscita dell’Unico),il cui riverbero si propaga nel polisemico relativismo della società attuale, l’aspetto psicologico rimane la sorgente più fresca a cui attingere nelle nostre assetate società ipertecnologiche. Questo perchè il formalismo logico con il quale il Nostro demolisce ogni pretesa di Verità salvifica ed estrinseca, porta l’unico al limite di una terra desolata dove il vivere è un vivere per se stesso, in un paesaggio spoglio di alcuna presenza umana.
Ma noi viviamo per noi stessi e per i nostri rapporti con gli altri, come lo hanno sempre contestato in buona sostanza i marxisti, tacciandolo di utopismo nichilista.
Altra cosa, e più pregnante, a mio parere, è l’impatto che può avere il suo pensiero che ci viene a trovare nelle nostre celle ipertecnologiche di uomini del 21° secolo. Qui la musica cambia, tramontato il marxismo, tramontato il sogno americano, tramontata la Storia vista come infinito progresso, nella società liquida di Baumann rimangono ancora vestigia degli antichi pensieri veritativi a cui pare non sappiamo rinunciare. Lo stirnerismo psicologico
può rappresentare la diga che ci preserva dai marosi del postumano.
Come un antico Leviatano che si ridesta in ogni dove, assistiamo alla resurrezione di nuove forme di “idee fisse”, che celate dietro la parvenza di una sfavillante modernità, perpetrano ancor oggi gli antichi soprusi: nell’economia globalizzata per esempio il paradigma centrale è rappresentato dalla “crescita perpetua” così come nella pervasiva tecnologia l’idea centrale è il” potenziamento illimitato” delle originali
limitate capacità umane, in una congerie di estensioni che prefigurano il cyborg prossimo venturo.
A questo l’unico contrappone la certezza dell’impermanenza e l’irriducibilità di un io che distrugge ogni forma di dogma per tornare in continuo al suo fondante nulla creatore, diverso da tutti gli altri, forma tra innumerevoli
forme che la natura ama esibire. Nessun balocco tecnologico o effimere certezze di durata illimitata possono colmare la voragine di autoconsapevolezza del transeunte. Nessun algoritmo può profilare quello che non si dà.
Quell’oscuro io, che dopo aver distrutto la filosofia, braccandola ferocemente in ogni concetto , si permette in esergo alla sua opera di dedicare beffardamente il libro così:
<Al mio amoruccio Marie Dahnhaerdt>